31 dicembre 2007

Heimat (Edgar Reitz, 1984)

Heimat (Heimat – Eine deutsche Chronik)
di Edgar Reitz – Germania 1984
film in undici episodi
****

Rivisto in DVD, con Martin, in originale con sottotitoli.

Con Marita Breuer (Maria), Gertrud Bredel (Katharina), Willi Burger (Mathias), Michael Lesch/Dieter Schaad (Paul), Rüdiger Weigang (Eduard), Karin Rasenack (Lucie), Karin Kienzler/Eva Maria Bayerwaltzes (Pauline), Arno Lang (Robert), Rolf Roth/Markus Reiter/Mathias Kniesbeck (Anton), Sabine Wagner (Martha), Roland Bongard/Michael Kausch (Ernst), Jörg Richter/Peter Harting (Hermann), Gudrun Landgrebe (Klara), Jörg Hube (Otto), Johannes Metzdorf (Pieritz), Gabriele Blum (Lotti), Kurt Wagner (Glasisch), Johannes Lobewein (Alois Wiegand), Ralf Isermann/Hans-Jürgen Schatz (Wilfried), Alexander Scholz (Hans), Eva Maria Schneider (Marie-Goot), Wolfram Wagner (Maethes-Pat), Otto Henn (Glockzieh), Helga Bender (Martina).

"Heimat tratta del partire e ritornare. Del rispetto che si ha per il proprio lavoro e la propria casa e del campare a credito. Di madri e di figli. Di padri e di come al mattino presto la luce risplende nelle stanze... Di bordelli berlinesi e del primo amore... Parla delle differenze tra uomini e donne. Della pagnotta che si stringe al petto per affettare... Del martello e dell’incudine. Narra dell’alba di nuove ere e di bisnonne. Della costruzione di autostrade e di piedi che camminano 5000 chilometri per tornare a casa… E sempre di pietre che rotolano senza attecchire nel fango".
(Edgar Reitz)

Intenso, struggente, immenso affresco storico della Germania dal 1919 al 1982, vista attraverso gli occhi degli abitanti di Schabbach, un paesino rurale e immaginario situato nella regione renana dell'Hunsrück (di cui è originario lo stesso Reitz), e in particolare attraverso i membri della famiglia Simon, microcosmo che rispecchia in sé un intero popolo e che esprime di volta in volta nostalgia per il passato e ottimismo per il futuro. "Heimat" significa "patria", ma con un significato più intimo e soggettivo di "nazione": è la casa natale, il luogo di origine, l'identità culturale, l'infanzia e la fanciullezza che si perdono quando si cresce. E il film offre per l'appunto un punto di vista soggettivo e "interno" sugli eventi storici (il nazismo, la crisi sociale, la guerra, il miracolo economico...): Schabbach è "fuori dalla mischia", in una zona del tutto marginale, il che consente di raccontare la storia senza retorica e come viene vista dalla gente comune. Il paese rimane sempre e comunque al centro della vicenda, punto di riferimento attorno al quale si muovono uomini e donne, chi restando e chi partendo per poi tornare profondamente cambiato (o non tornare mai più). Realizzato in oltre cinque anni di lavorazione, diviso in undici episodi (di durata diseguale: da 58' a 138') per un totale di quindici ore e trenta minuti, è un film unico e indimenticabile, con decine e decine di personaggi ai quali non ci si può non affezionare e le cui vicende si seguono con partecipazione e interesse. L'effetto telenovela, sempre incombente, è scongiurato dall'eccellente fattura tecnica e artistica, dalla sceneggiatura mai scontata, dall'ampio respiro della trama, dall'intreccio fra realismo e surrealismo, e naturalmente dagli ottimi attori, in gran parte sconosciuti se non addirittura non professionisti, dotati di volti espressivi e significativi. Alcuni dei personaggi (come Maria, il fulcro della saga, o Eduard) vengono invecchiati con il trucco, mentre altri (come Paul, Anton o Hermann) vengono interpretati da attori differenti nelle diverse epoche. Anche se coprodotto dalla televisione tedesca, il film è stato concepito sin dall'inizio per il cinema e il risultato è altamente cinematografico, e tecnicamente molto vario: l'alternanza fra le scene in bianco e nero (la maggior parte) e quelle a colori non dipende dai contenuti o dall'importanza delle sequenze, ma segue un criterio puramente espressionistico: l'utilizzo del colore o meno consente di far risaltare maggiormente alcuni momenti a scapito di altri, in maniera talvolta drammaticamente efficace. Avevo già visto interamente il film con Martin una decina di anni fa, ma abbiamo voluto riguardarlo tutto per prepararci alla visione, l'anno prossimo, di "Heimat 2" (ancora più lungo: circa 26 ore!) e "Heimat 3", non tanto seguiti quanto spin-off che seguono le vicende di Hermann, personaggio che sceglie di andare via dal paese in cerca di una "seconda patria". Sono felice, stavolta, di averlo visto in lingua originale: i personaggi non parlano infatti un tedesco puro ma un dialetto che varia con il tempo e a seconda del personaggio stesso. Ogni episodio, che pur facendo parte di un tutt'unico ha anche una certa autonomia, è introdotto da uno splendido riassunto raccontato da Glasisch, lo "scemo del villaggio", personaggio minore ma onnipresente, che commenta le fotografie dei momenti più importanti degli eventi precedenti: a volte si tratta di foto fatte da Eduard o da Anton negli episodi passati, ma spesso sono foto "impossibili" che nessuno può aver scattato.

1 – Nostalgia di terre lontane (Fernweh) (1919-1928)
Dopo la prima guerra mondiale il giovane Paul Simon torna alla casa dei suoi genitori nel villaggio di Schabbach nell'Hunsrück, in Renania, dove vivono anche il fratello Eduard e la sorella Pauline. Ma si sente diverso dagli altri e fuori posto. Il padre, contadino e artigiano, vorrebbe che diventasse fabbro come lui e come i suoi nonni. Paul sogna invece orizzonti più ampi e paesi lontani: è appassionato di radio e costruisce il primo apparecchio ricevente di tutta la regione. Si innamora della bella Apollonia, una ragazza di padre ignoto chiamata da tutti "la zingara" perché ha i capelli neri. Messa incinta da un soldato francese a 17 anni, Apollonia lascia però il paese per recarsi in Francia con il suo amante. Paul sposa allora Maria, figlia di Alois Wiegand, l'uomo più ricco e importante del villaggio. Nel frattempo suo fratello Eduard, che non può lavorare nei campi per la sua malattia ai polmoni, fa un po' di tutto: è appassionato di fotografia, inventa un metodo per alzare i teloni dei monumenti (come quello ai caduti che viene inaugurato in paese), cerca l'oro nel ruscello Goldbach in compagnia degli amici Glockzieh e Glasisch. Quest'ultimo, con le mani rovinate da una malattia, è sempre ai ferri corti con il "saccentone" Wiegand, che non rinuncia mai a stuzzicare. Fra gli altri personaggi che vengono introdotti nel primo episodio ci sono il piccolo Hans, un ragazzino orbo a un occhio; Jakob, il proprietario della locanda; e naturalmente il silenzioso Mathias e la saggia Katharina, i genitori di Paul. Passano gli anni: Wiegand diventa borgomastro e continua a essere sempre il primo in tutto: il primo ad acquistare una moto, il primo a guidare un'automobile, il primo ad avere una radio (costruita ovviamente da Paul): non c'è da stupirsi se suo figlio Wilfried, fratello minore di Maria, sia viziato e detestato dagli altri bambini. Ma gli anni successivi alla guerra sono duri: c'è la crisi economica e l'inflazione, i soldi non valgono più niente, e il paese è controllato dalle forze di occupazione francesi. Si vedono i primi semi del nazismo: tutti attendono un "genio" che possa guidare i tedeschi a riconquistare dignità e potere. Pauline si sposa con Robert, l'orologiaio di Simmern, il grande paese vicino. Maria dà alla luce due figli, Anton ed Ernst, ma nemmeno loro riescono a togliere a Paul un po' di irrequietezza. Poco dopo aver trovato una misteriosa donna morta nei boschi vicino a Schabbach, Paul esce di casa: dice a tutti di voler andare a bere una birra, e invece abbandona il paese senza lasciare traccia. Per essere un episodio introduttivo, la carne al fuoco è già molta e la narrazione ha già un senso compiuto. La contrapposizione fra la "nostalgia di terre lontane" e la "nostalgia per la terra natale" sarà il tema cardine di tutta la saga, visto che contribuirà a dividere i personaggi in due gruppi: quelli che partono (Paul, Hermann) e quelli che restano (Maria, Katharina) o tornano (Anton, Ernst, Otto).

2 – Il centro del mondo (Die Mitte der Welt) (1928-1933)
Mentre Paul approda in America a Ellis Island, accolto da un barbiere italiano che canta "Mamma mia dammi cento lire", e di lui non ne sapremo più nulla per molto tempo, Eduard si reca a Berlino per curarsi i polmoni. Nella grande città conosce Lucie, maitresse in un bordello: l'ambiziosa ragazza crede che Eduard sia un ricco proprietario terriero, accetta di sposarlo e lo segue nell'Hunsrück. Pur delusa di scoprire che è semplicemente il figlio di un fabbro, gli assicura che entro due anni possiederanno una grande villa e che lui diventerà l'uomo più potente di Schabbach: tutti lo seguiranno. Nel frattempo il villaggio viene attraversato da una ragazza francese, una cavallerizza di passaggio che si sta recando da Parigi a Berlino: per tutti è il segno che Schabbach si trova "al centro del mondo", a metà strada fra le due grandi capitali, e magari anche "fra il Polo Nord e il Polo Sud". Siamo in una nuova epoca, all'insegna dell'ottimismo. Le cose vanno meglio, tutti acquistano e spendono, ma Katharina ha molti dubbi: le persone, in realtà, stanno facendo debiti, "e prima o poi bisognerà pagarli". La Germania vive l'ascesa di Hitler: i bambini indossano uniformi, ovunque ci sono celebrazioni, arriva la luce elettrica (ma scoppiano anche epidemie di difterite). Fritz, parente comunista dei Simon che vive nella Ruhr, viene arrestato e inviato ai campi di riabilitazione. Katharina, che conduce con sé a Schabbach la nipotina Lotti, è dichiaratamente contro i nazisti, o forse è semplicemente più saggia e realista di tutti gli altri: chiede al nipote Anton di non indossare più la divisa. Wilfried, figlio di Wiegand, vuole invece entrare nelle SS.

3 – Natale come mai fino allora (Weihnacht wie noch nie) (1935)
Le cose sembrano andare sempre meglio, e il progresso pare inarrestabile: dopo la luce elettrica, arriva persino il telefono in casa, naturalmente dai Wiegand. Hans, il ragazzo cieco da un occhio, si diverte a sparare ai pali della luce: la sua menomazione lo rende un cecchino perfetto, ed Eduard – che nel frattempo è stato convinto da Lucie a entrare nel partito e a diventare borgomastro del vicino paese di Rhaunen, ma continua a sembrare capitato lì per caso e non percepisce che cosa sta per accadere – lo incoraggia. Anche Lucie continua a sognare sempre il meglio dalla vita: chiedendo i soldi in prestito a un banchiere ebreo, lei ed Eduard costruiscono una grande casa e hanno un figlio, Horst. Il Natale 1935 è all'insegna della felicità, dei consumi, della grandiosità e dell'ottimismo (soltanto Katharina sembra esserne immune): gli affari di Robert e Pauline vanno a gonfie vele e si festeggia con un lungo canto (Stille Nacht) nella chiesa cattolica in una magistrale sequenza a colori. Wilfried torna da Berlino, dove sta facendo l'addestramento per entrare nelle SS, portando un albero di natale. Qualche giorno più tardi, tre importanti personalità del partito nazista passano per Schabbach e si fermano per qualche ore a casa di Eduard e dell'orgogliosissima Lucie.

4 – Via delle alture del Reich (Reichshöhenstraße) (1938)
Il giovane Anton, figlio maggiore di Paul e Maria, è diventato un grande appassionato di meccanica, di fotografia e di cinema, mentre suo fratello minore Ernst fa volare aerei e modellini. Nelle vicinanze di Schabbach è in costruzione la grande strada provinciale dell'Hunsrück, che dovrà unire Coblenza a Treviri. L'ingegnere Otto Wohlleben, responsabile del progetto insieme al suo assistente Pieritz, soggiorna temporaneamente a casa dei Simon. Sono passati dieci anni dalla partenza di Paul: Maria, che in tutto questo tempo ha pensato soltanto ai suoi figli, se ne innamora. E comincia finalmente a pensare anche a sé stessa (magnifica, e splendidamente fotografata, la scena nella quale lei e Pauline vanno al cinema e poi si acconciano i capelli con i tirabaci simili a quelli dell'attrice Zarah Leander). Nel frattempo Lucie ed Eduard ospitano Martina, amica di Lucie giunta da Berlino (testimonianza, per Lucie, di una vita ormai passata). È interessante come Reitz descrive il nazismo: la gente comune ci crede senza rendersi conto di che cosa si tratta, o ci vede una grande occasione di riscatto: c'è poi chi come Wilfried si lascia trasportare, o chi come l'opportunista Lucie sfrutta ogni cosa a proprio favore, ma anche chi come Katharina rimane sempre con i piedi per terra. Il "sempliciotto" Eduard commenta così il momento attuale di felicità: "il tempo dovrebbe fermarsi ora". Reminiscenze del Faust? "Verweile doch, du bist so schön".

5 – Scappato via e ritornato (Auf und davon und zurück) (1938-1939)
Lucie vorrebbe portare i suoi genitori a Schabbach, ma muoiono entrambi in un incidente automobilistico. Maria continua a frequentare Otto, che però è protagonista di varie vicissitudini: prima si rompe il braccio e deve tenerlo ingessato per diversi mesi, poi viene trasferito a Treviri (e Maria lo raggiunge ogni volta che può), infine viene licenziato perché sua madre è ebrea. Improvvisamente arriva una lettera di Paul: scrive dall'America, dove ha fatto fortuna e ha messo in piedi una florida azienda di materiale elettrico: la Simon Electric Incorporated di Detroit. Annuncia che sta per approdare al porto di Amburgo. Maria si reca lì con Anton e con sentimenti contrastanti: ma a Paul, sprovvisto di certificato di razza ariana, i nazisti impediscono di sbarcare. I tentativi di Eduard e di Wilfried di provare che Paul Simon non è ebreo annegano in un mare di burocrazia e scartoffie (in una scena molto divertente): nell'ottocento si usavano troppi nomi biblici! Mentre il vecchio Mathias sta diventando cieco e Rudolf Pollack, giovane assistente di Robert in negozio, flirta con Martina, il primo settembre 1939 inizia la guerra. Ernst entra in aviazione. Katharina commenta sconsolata: "adesso pagheremo tutti i debiti".

6 – Fronte interno (Heimatfront) (1943)
Ben lungi da durare poche settimane come Wilfried assicurava ancora alla fine dell'episodio precedente, la guerra si trascina ormai da quasi quattro anni. Ernst è riuscito a diventare aviatore, mentre Anton è stato inviato al fronte in Russia. A casa Simon arriva Martha, una ragazza di Amburgo incinta di sei mesi che Anton ha deciso di sposare a distanza, per procura. Nel frattempo è nato anche Hermann, figlio illegittimo di Maria e Otto, che nel 1943 ha già quattro anni. Wilfried Wiegand è il responsabile delle SS nella regione e mostra tutta la propria natura di "cattivo": maltratta i prigionieri francesi (scontrandosi più volte con la zia Katharina), uccide un paracadutista inglese caduto nel bosco, rivela di essere a conoscenza della "soluzione finale". Otto e Pieritz lavorano ancora insieme, stavolta come artificieri, e disinnescano le bombe inesplose. Hans, diventato fuciliere, muore in guerra: la cosa scuote Eduard, che l'aveva incoraggiato. Al cinema le donne vanno ad assistere a un film che si chiama "Heimat", ancora con Zarah Leander (un film del 1938 realmente esistente: diavolo di un Reitz!).

7 – L'amore dei soldati (Die Liebe der Soldaten) (1944)
In una delle rare e più lunghe sequenze ambientate fuori dall'Hunsrück, scopriamo che Anton fa l'assistente operatore al fronte in Russia e realizza cinegiornali di propaganda, agli ordini di un ufficiale convinto che la vera arte cinematografica stia nel documentario. Nel frattempo Otto e Pieritz tornano a Schabbach, dove Otto ritrova Maria dopo quattro anni e vede per la prima volta suo figlio Hermann. In questo periodo i Simon ospitano anche Lotti e Ursula, due lontane parenti (Lotti era la bambina che Katharina aveva portato con sé nel 1933!), oltre al soldato Specht. Le tragedie sembrano non finire mai: Otto muore nell'esplosione di un ordigno che stava disinnescando (in una sequenza interminabile che tiene lo spettatore col fiato sospeso); un bombardamento inglese provoca la morte di Specht; Mathias sta sempre più male. Mentre nasce la figlia di Anton e di Martha, Marlies, gli americani arrivano a Schabbach. Il mondo è cambiato, Wilfried si sente perduto, mentre Lucie sta già pensando a come adattarsi alla nuova situazione.

8 – L'americano (Der Amerikaner) (1945-1947)
Si tratta dell'episodio centrale della saga, vera chiave di volta che chiude un periodo e ne apre un altro. La guerra finalmente finisce, mentre a Berlino Pollack e Martina muoiono fra le bombe. Dal riassunto veniamo a sapere che Mathias è morto poco prima dell'arrivo degli americani, che Anton e Robert (il marito di Pauline) sono dispersi in Russia e che Ernst è stato abbattuto in Francia: in realtà è sopravvissuto, però per ora non intende fare ritorno a casa e si limita a inviare da sua madre una ragazza di nome Klara, che ha perso la famiglia e la casa. Nel maggio del 1946 torna finalmente Paul, "l'americano", elegante e con una vettura condotta da un autista di colore. Ma il suo tentativo di ristabilirsi in patria si rivela fallimentare: Maria lo accoglie freddamente, e per tutti – tranne forse che per sua madre Katharina e suo fratello Eduard – è come se fosse un estraneo, ancora più fuori posto di prima. Paul si trattiene comunque a Schabbach per un anno. In un locale incontra suo figlio Ernst, che girovaga in compagnia di una bionda e traffica nel mercato nero, ma i due non si riconoscono. Nel maggio 1947 ritorna anche Anton, che ha percorso a piedi oltre 5000 chilometri dagli Urali fino alla Germania. Lo stesso giorno muore Katharina, e l'indomani Paul riparte definitivamente per gli Stati Uniti. Anton rivela a Martha la sua intenzione di costruire una fabbrica di componenti ottici nell'Hunsrück: ci ha pensato per tutto il viaggio di ritorno ed è convinto che sia il posto ideale. Le promette che verranno tempi migliori.

9 – Il piccolo Hermann (Hermännchen) (1955-1956)
È l'episodio più lungo (due ore e venti) e più intenso di tutto "Heimat". Siamo nel 1955, l'attenzione si sposta su Hermann (il personaggio nel quale è più facile vedere Reitz stesso), che ha quindici anni e va al liceo della città vicina: Maria vorrebbe che fosse il primo Simon ad andare all'università e spera che diventi ingegnere come Otto, ma lui preferisce filosofeggiare con gli amici, scrivere poesie e suonare musica jazz. Veniamo anche a sapere cosa ne è stato dei suoi fratelli: Ernst ha sposato la figlia di un ricco magnate del legname, e adesso pilota l'elicottero che trasporta i tronchi dalla montagna al fiume; Anton ha messo in piedi con successo la sua fabbrica di componenti ottici in quello che era il campo del nonno Mathias, e ha dato lavoro a molti abitanti di Schabbach, fra i quali – con mansioni varie – anche Glasisch, Pieritz, Lotti (che fa la segretaria) e Klärchen (Klara). Proprio quest'ultima, pur avendo quasi il doppio dei suoi anni, "svezza" sessualmente il giovane Hermann. La relazione fra i due viene tenuta segreta a tutti, ma dopo che Klara resta incinta e fugge dal paese per abortire, Maria e gli altri ne vengono a conoscenza. Anton proibisce a Klara di rivedere Hermann (è un po' triste vedere personaggi amati in precedenza, come Anton e Maria, comportarsi così da "cattivi": soltanto Ernst, pecora nera della famiglia, si mette dalla sua parte). Il giovane, dopo averla salutata per l'ultima volta la notte di capodanno del 1956, decide che una volta compiuti diciott'anni lascerà Schabbach per andare a studiare in una grande città e non tornare mai più. La didascalia finale ci rivela che diventerà un compositore: e da questo punto preciso prenderà il via "Heimat 2". Tutto l'episodio si svolge negli anni del miracolo economico e della ricostruzione della Germania, e non a caso è quasi interamente a colori (il rapporto di predominanza fra colori e bianco e nero sembra ormai completamente invertito rispetto alle puntate precedenti). Mentre gli affari di Anton vanno bene, per "l'avventuriero" Ernst non è così: i suoi investimenti falliscono, la moglie lo ripudia e lui è costretto – per la prima volta dopo la guerra – a tornare a vivere dalla madre a Schabbach. Fra gli altri personaggi che ricompaiono c'è Wilfried, ora membro della CDU, che effettua esperimenti con gli insetticidi nei campi di Schabbach (mandando su tutte le furie il nipote Anton). Scopriamo che Anton ha tre figli (un quarto è in arrivo: alla fine della saga saranno cinque!), mentre praticamente nulla ci viene detto di Pauline, Robert (presumibilmente disperso in guerra), Eduard e Lucie.

10 – Gli anni ruggenti (Die stolzen Jahre) (1967-1969)
Una multinazionale propone ad Anton di acquistare la sua fabbrica di componenti ottici, ma in realtà è interessata soltanto ai suoi brevetti. Indeciso sul da farsi, Anton decide di chiedere consiglio a suo padre, scoprendo che questi, all'insaputa di tutti, si trova in Germania. È infatti a Baden-Baden, in compagnia del figliastro Hermann (nel frattempo diventato un celebre compositore di musica sperimentale), per aiutarlo con le apparecchiature elettroniche. Paul consiglia ad Anton di vendere l'azienda e di godersi i soldi, ma il figlio sceglie di non seguire il consiglio. A differenza di Paul e anche di Hermann, che hanno scelto di abbandorare la "patria" e hanno ormai smarrito le proprie radici, Anton è ancora molto legato a Schabbach e ai suoi abitanti. Anche per questo non vede di buon occhio la nuova attività di Ernst, che acquista i mobili e gli infissi delle vecchie case dell'Hunsrück, rivendendoli ai ricchi delle grandi città e sostituendoli con altri più nuovi ma decisamente meno preziosi. Ma nel frattempo tutta la Germania sta ancora cambiando: persino Maria viene convinta da Pauline a vendere la sua vecchia mucca e a progettare un viaggio all'estero che non si farà mai. Il concerto di Hermann viene trasmesso in diretta radiofonica, ma gli abitanti di Schabbach non apprezzano la sua musica d'avanguardia. Soltanto Glasisch sembra capirci qualcosa.

11 – La festa dei vivi e dei morti (Das Fest der Lebenden und der Toten) (1982)
Glasisch ci introduce all'ultimo capitolo con un albero genealogico delle famiglie principali del paese anziché con le solite fotografie. Veniamo così a sapere che nel frattempo sono morti in parecchi: fra gli altri, Eduard, Lucie (che però rivediamo in un flashback), Pauline e Wilfried. E l'episodio si apre con un altro funerale, quello di Maria, che si svolge sotto la pioggia. Sono presenti persino i parenti brasiliani di cui si parlava sin dal primo episodio. I tre figli di Maria si riuniscono così a Schabbach ed esplorando la vecchia casa hanno l'occasione per riconciliarsi e fare un tuffo nella memoria. Durante la fiera del paese, anche i morti (che emozione rivedere dopo tanto tempo Maria e gli altri ancora giovani!) si radunano nell'edificio centrale di Schabbach per partecipare alla festa e osservare di nascosto i loro congiunti ancora vivi. La cronaca di "Heimat", proprio nel finale, abbandona dunque i toni neorealistici per entrare in una dimensione onirica che – a dire il vero – qua e là era presente sin dall'inizio. Maria può finalmente riunirsi all'amato Otto, e con loro c'è anche Glasisch: il nostro narratore se ne è infatti andato silenziosamente proprio durante la festa, senza che nessuno dei personaggi principali se ne sia accorto. E mentre Hermann (protagonista dei futuri "Heimat 2" e "Heimat 3") fa eseguire un coro nelle grotte sottostanti il paese, la macchina da presa si allontana lentamente dal villaggio seguendo la strada di campagna che tante volte abbiamo visto calcare dai personaggi, primo fra tutti Paul, quindici ore e mezzo (o 64 anni?) or sono.

30 dicembre 2007

I cowboys del deserto (E. Buzzell, 1940)

I cowboys del deserto (Go West)
di Edward Buzzell – USA 1940
con Groucho, Chico e Harpo Marx
**

Visto in DVD, con Martin, in originale con sottotitoli inglesi.

Decimo film dei fratelli Marx, realizzato nel loro periodo calante, è una parodia delle classiche tematiche western che prende spunto dalla celebre frase del politico ed editore Horace Greeley ("Go West, Young Man!"): curiosamente anche Buster Keaton era stato protagonista, nel 1925, di un lungometraggio dal titolo identico. I tre fratelli, giunti nel west in cerca di fortuna e di oro, si ritrovano presto alleati per battersi contro una coppia di farabutti che intende sottrarre a una ragazza l'atto di proprietà di un terreno sopra il quale dovrà passare la ferrovia. Fra duelli nel saloon, incontri con gli indiani e inseguimenti sulle rotaie, il film rivisita gran parte degli scenari tipici dei western dell'epoca senza troppa originalità, anche se le gag e le battute dei tre protagonisti strappano più di un sorriso. Non male nemmeno i numeri musicali. Manca però l'anarchia e la completa follia delle loro prime pellicole. Fra le scene migliori, quella in cui Groucho e Chico vengono ubriacati dalle ragazze del saloon, quella in cui Harpo suona in compagnia del capo indiano e naturalmente la folle corsa del treno nel finale, con i tre fratelli che cercano in ogni modo prima di fermarlo e poi di accelerarlo, smontandolo letteralmente per bruciare la legna dei vagoni nella caldaia.

29 dicembre 2007

Rob-B-Hood (Benny Chan, 2006)

Rob-B-Hood (Bo bui ga wak)
di Benny Chan – Hong Kong 2006
con Jackie Chan, Louis Koo
*1/2

Visto in DVD, con Hiromi.

Il bel "New Police Story" aveva fatto sperare in una nuova giovinezza per Jackie Chan, grazie anche al ridimensionamento dei progetti americani e al ritorno a Hong Kong sotto la guida del fidato Benny Chan. Questa insipida commedia d'azione ispirata a "Tre uomini e una culla", invece, rappresenta decisamente un passo indietro. Jackie interpreta il ruolo di un rapinatore che dissipa regolarmente tutti i propri guadagni al gioco d'azzardo e che accetta, con i suoi due complici, di rapire un bambino per conto di un malavitoso convinto che si tratti del proprio nipotino. Ovviamente la convivenza forzata di due settimane con il neonato risveglierà in lui e nei suoi amici l'istinto paterno: e alla fine faranno di tutto per non lasciarlo nelle mani del gangster e per riconsegnarlo alla famiglia d'origine. Incredibilmente lungo (è raro che una pellicola di Jackie duri oltre due ore!), piuttosto noioso, con pochi e anonimi combattimenti (in compenso c'è un interminabile inseguimento a un furgone), il film ha qualche lampo qua e là (per esempio, nella divertente scena dove la casa di Jackie e del suo complice Louis Koo si affolla di persone) ma soffre per un intreccio decisamente prevedibile, per gli insopportabili momenti con il bambino e per una serie di gag comiche francamente imbarazzanti (come il "riferimento" a Brokeback Mountain). Yuen Biao interpreta il ruolo dell'ispettore di polizia, amico d'infanzia di Jackie, ma anche lui ha soltanto una breve occasione per mostrare quel che resta delle proprie capacità atletiche.

28 dicembre 2007

Improvvisamente l'estate scorsa (J.L. Mankiewicz, 1959)

Improvvisamente l'estate scorsa (Suddenly, Last Summer)
di Joseph L. Mankiewicz – USA 1959
con Elizabeth Taylor, Montgomery Clift, Katharine Hepburn
***1/2

Visto in DVD.

Ambientato a New Orleans nel 1937, tratto da un dramma di Tennessee Williams (dalle cui opere sono state girate numerose celebri pellicole, come "Un tram che si chiama desiderio", "La gatta sul tetto che scotta" e "La dolce ala della giovinezza") e sceneggiato da Gore Vidal, è un film che sembra fatto su misura per Mankiewicz: mette in scena infatti quei personaggi ossessionati e quell'atmosfera squilibrata che si ritrovano spesso nelle opere migliori del regista. La sempre grande Katharine Hepburn, in un ruolo intenso e melodrammatico, è una vedova che si rivolge a un celebre medico per convincerlo a praticare una lobotomia su sua nipote, rinchiusa in una clinica per alienati mentali dopo aver assistito a un tragico evento: la morte di suo cugino, unico figlio della donna, avvenuta l'estate precedente durante un viaggio in Europa. Anziché da neurochirurgo, il medico si comporterà però da psichiatra per scoprire cosa è veramente avvenuto in quell'occasione. Le sequenze finali, allucinate e orrorifiche, ricordano addirittura certe cose di Buñuel. Mentre il personaggio del medico (Clift), pur nella sua ricerca della verità, resta sullo sfondo e si limita a un ruolo da spettatore/narratore, a svettare sono le due donne: la Taylor, sconvolta da un trauma, e la Hepburn, in adorazione del figlio. Il "grande assente che incombe" è proprio quest'ultimo, che viene continuamente rievocato da ricordi, omaggi, allusioni: un personaggio che riconosceva la crudeltà della natura, cercava inutilmente un contatto con Dio, sfruttava le donne di famiglia come "richiami" per soddisfare la propria omosessualità, e rimane infine vittima di un tragico contrappasso. Come dice Mereghetti, "oggi lo spettatore può sorridere di certe ingenuità psicoanalitiche, ma non può non restare affascinato dalla suggestiva e morbosa atmosfera".

24 dicembre 2007

Oliver Twist (R. Polanski, 2005)

Oliver Twist (id.)
di Roman Polanski – GB/Francia 2005
con Barney Clark, Ben Kingsley
**1/2

Rivisto in TV, con Hiromi.

Dopo il successo de "Il pianista", Polanski ha saggiamente preferito dedicarsi a un film più leggero (ma fino a un certo punto), tratto dal classico libro per ragazzi di Dickens che era già stato trasposto più volte al cinema (per esempio da David Lean nel 1948, ma anche dalla Walt Disney in "Oliver & Company"). E i toni grotteschi e ai limiti dell'assurdo tipici del regista polacco ben si sposano con l'atmosfera cupa e vittoriana del romanzo e con le peripezie strappalacrime del protagonista, orfano vittima dello sfruttamento e delle crudeltà sociali dell'ottocento che finisce con l'unirsi suo malgrado a una banda di ladri che opera nel sottobosco londinese. La prima parte del film, anche se talvolta un po' esagerata e sopra le righe, mi è sembrata decisamente la migliore. I volti dei personaggi secondari, soprattutto quelli degli adulti (come i responsabili dell'orfanotrofio o i giudici), sono caricaturali come in "Per favore, non mordermi sul collo" e contrastano notevolmente con le facce più "pulite" dei ragazzini. Nella seconda parte, invece, il film si trasforma quasi in una pellicola d'azione e perde un po' di fascino. Il finale è buonista, ma non c'è da sorprendersi: è Dickens. Ben Kingsley, sepolto sotto un pesante trucco, è un ottimo Fagin, ambiguo ma umano, abietto ma simpatico, e anche gli attori bambini sono bravi (oltre a Oliver, spicca anche quello che interpreta la parte di Dodger "il malandrino") . Bella la ricostruzione storica e le scenografie (la Londra sporca e industriale è stata completamente rifatta a Praga), che donano alla pellicola una qualità visiva che contribuisce a rendere il setting più realistico e vivo che mai, quasi senza bisogno di fare ricorso a effetti speciali.

23 dicembre 2007

L'ultima risata (F. W. Murnau, 1924)

L'ultima risata (Der letzte Mann, aka The last laugh)
di Friedrich Wilhelm Murnau – Germania 1924
con Emil Jannings, Maly Delschaft
***1/2

Visto in DVD, con Martin.

Uno dei grandi capolavori di Murnau e del cinema muto tedesco, in quegli anni probabilmente il migliore del mondo. Il grande Jannings è il portiere di un albergo di lusso, che trae soddisfazione e orgoglio nell'indossare la sua splendente uniforme gallonata. Quando, per la vecchiaia, viene degradato a guardiano dei bagni, l'umiliazione è troppo forte: segretamente trafuga la sua vecchia livrea e continua a indossarla fuori dal lavoro. Scoperto, verrà scacciato di casa e deriso da tutti. La sua storia tragica e patetica sembrerebbe destinata alla fine, ma un cartello (l'unico di tutto il film, a parte quello introduttivo: potenza delle immagini, che non hanno bisogno né di dialoghi né di didascalie!) annuncia che l'autore ha avuto pietà di lui e ha voluto regalare al suo protagonista un happy end "improbabile": e la sequenza conclusiva, nella quale l'uomo diventa ricco per un'improvvisa eredità, è infatti esageratamente irreale e la si guarda quasi pensando che non faccia veramente parte del film, il che aggiunge ancora più emozione per il destino del personaggio. Il titolo originale tedesco significa "L'ultimo uomo", che mi sembra molto più appropriato per raccontare la storia di una persona umile. Il film è ispirato al racconto "Il cappotto" di Gogol e, nelle intenzioni dell'autore, voleva mettere in guardia dall'eccessiva importanza che viene data alle uniformi anziché a coloro che le indossano. Ma alcuni critici lo hanno letto anche come metafora politica di una Germania derisa e umiliata dalle altre potenze e incapace di accettare la sua nuova situazione. Eccezionale la scenografia, sontuosa e meno espressionista di altri film tedeschi dell'epoca, e naturalmente la regia, moderna e dinamicissima, con grande profondità grazie a carrelli che attraversano le grandi stanze dell'albergo, inquadrature attraverso finestre, vetrate e soprattutto la porta girevole dell'hotel. Ottima la copia restaurata, ottenuta da frammenti di provenienza diversa.

Streamers (Robert Altman, 1983)

Streamers (id.)
di Robert Altman – USA 1983
con Matthew Modine, Mitchell Lichtenstein
***

Visto in DVD, con Martin e Luisa.

Un Altman minore, ma molto bello. Tre reclute in addestramento condividono una gigantesca camerata in una caserma presso Washington. Sono in attesa di partire per la guerra del Vietnam, ma nel frattempo tra loro scoppiano tensioni di ogni tipo: sociali, razziali, e soprattutto sessuali. Tratto da un testo teatrale (e si vede) e girato completamente in un'unica stanza (anche le poche volte che i personaggi agiscono al di fuori della camerata, la macchina da presa li riprende restando al di qua delle finestre), il film è tipicamente altmaniano nella sua coralità e caoticità. Nei primi minuti sembra quasi che possa essere una sorta di "MASH 2", ma poi il tono comico-grottesco scompare gradualmente e subentra quello drammatico. Nonostante la guerra che incombe (i cui temi sembrano riguardare più i sottoufficiali, che hanno già combattuto, che le reclute, che non hanno idea di cosa le aspetta), l'interesse dei personaggi è rivolto soprattutto al proprio intimo e ai rapporti interpersonali. Ottimo il cast, che ha ricevuto nel suo insieme il premio per la miglior recitazione al festival di Venezia. Quattro anni più tardi Matthew Modine si ritroverà a interpretare una parte simile (un soldato in caserma, in attesa di partire per il Vietnam) anche in "Full metal jacket" di Stanley Kubrick.

22 dicembre 2007

Piccolo Buddha (B. Bertolucci, 1993)

Piccolo Buddha (Little Buddha)
di Bernardo Bertolucci – GB 2003
con Keanu Reeves, Alex Wiesendanger
**1/2

Visto in DVD.

Due monaci tibetani sono convinti che un bambino americano di otto anni sia la reincarnazione del loro maestro spirituale. Per metterlo alla prova lo condurranno in Bhutan, insieme ad altri due candidati: alla sua storia si intreccia quella del giovane Siddharta, interpretato da Keanu Reeves, il principe che scoprì l'esistenza della sofferenza nel mondo e che attraverso la meditazione raggiungerà l'illuminazione, diventando Buddha. Film stranissimo, completamente privo di tensione, che procede leggero come un sogno o una favola e che riesce a raccontare la religione buddista, le sue basi storiche e i suoi concetti fondamentali senza essere pedante, didascalico, intrusivo o troppo "filosofico". Nonostante la durata (quasi due ore e mezza), scorre via che è un piacere: però non lascia molto, se non a chi è particolarmente ricettivo o già interessato all'argomento. Notevole la fotografia di Vittorio Storaro, che usa colori caldi (rossi e gialli) per le scene ambientate in India, in Tibet o in Bhutan, mentre si affida a colori freddissimi (blu e bianchi) per quelle girate negli Stati Uniti. Il risultato è sontuoso e patinato. Bertolucci, che torna a raccontare l'Estremo Oriente dopo i fasti (e gli Oscar) de "L'ultimo imperatore", si affida ai suoi soliti collaboratori (Pietro Scalia al montaggio, Ryuichi Sakamoto alle musiche) e usa anche qualche effetto speciale. La madre del bambino è un'affascinante Bridget Fonda.

21 dicembre 2007

La leggenda di Liliom (Fritz Lang, 1934)

La leggenda di Liliom (Liliom)
di Fritz Lang – Francia 1934
con Charles Boyer, Madeleine Ozeray
**1/2

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Si dice che il 30 marzo 1933 Joseph Goebbels convocò Fritz Lang per offrirgli una carica di dirigente nell'industria cinematografia del Terzo Reich. Il regista di "Metropolis" e "I Nibelunghi" accettò, ma la notte stessa fuggì clandestinamente dalla Germania lasciandosi dietro ogni cosa (compresa la moglie Thea von Harbou, fervente nazista) e rifugiandosi in Francia. Qui diresse il suo primo film non tedesco, "Liliom" appunto, tratto da un popolare testo teatrale di Ferenc Molnar che aveva già dato spunti al cinema (e ispirerà in futuro il musical "Carousel"). L'insuccesso della pellicola, a causa di una seconda parte che disorientò gli spettatori, spingerà il regista ad accettare la proposta della MGM di emigrare in America.

Liliom Zadowski, imbonitore alle giostre di un luna park, lascia il lavoro per sposare la timida e umile Julie. Ma pur amandola, non è un buon marito: è un fannullone, seduttore, violento, impulsivo, orgoglioso. Quando viene a sapere che Julie è incinta, decide di compiere una rapina per garantirle un futuro migliore. Accerchiato dalla polizia, preferisce il suicidio alla cattura e si accoltella. E qui, proprio mentre mi chiedevo come potesse continuare un film nel quale il protagonista muore con 40 minuti di anticipo sulla fine, giungono due "poliziotti di Dio" per portarlo in cielo, dove viene condannato a sedici anni di purgatorio prima di essere sottoposto a una prova che dovrà decidere il suo destino. Alla prima parte realistica, seppur velata da toni di commedia e di satira, segue un finale comico-fantastico a sfondo morale che si iscrive nello stesso solco di film quali "La vita è meravigliosa" o "Accadde domani" e che probabilmente ispirò anche "Il cielo può attendere" di Lubitsch: il protagonista ritrova in cielo un commissariato molto simile a quello della Terra, con tanto di poliziotto identico (ma con le ali), che legge il quotidiano "Paradis-Midi", e una graziosa dattilografa con due stelline a coprirle i capezzoli. Anche la burocrazia è la stessa, così come i divieti e le procedure. Non manca il "cinema nel cinema", visto che davanti a Liliom vengono proiettati alcuni rulli cinematografici della sua vita (che registrano non solo le parole, ma anche i pensieri), che gli dimostrano che forse non era così malvagio come credeva. Piccola (ma fondamentale) parte per Antonin Artaud: è l'arrotino che quasi interrompe il tentativo di rapina di Liliom, chiedendogli di affilare il coltello che l'uomo intende usare, e che si rivelerà nientemeno che il suo angelo custode. La fotografia è di Rudolph Matè.

20 dicembre 2007

La bussola d'oro (Chris Weitz, 2007)

La bussola d'oro (The Golden Compass)
di Chris Weitz – USA/GB 2007
con Dakota Blue Richards, Nicole Kidman
*1/2

Visto al cinema Colosseo, con Hiromi.

Il primo capitolo di quella che avrebbe dovuto essere una nuova e ambiziosa trilogia fantasy della New Line, tratta dal ciclo di romanzi "His Dark Materials" di Philip Pullman (ma il primo libro si intitolava "Northern Lights"), è un film che non appassiona particolarmente e soprattutto che non riesce a sfruttare bene i molti spunti interessanti che il soggetto offre, in particolare nella prima mezz'ora. La storia si svolge in un mondo parallelo al nostro, vagamente steampunk, dove al fianco di ogni essere umano cammina il suo spirito animale (chiamato daemon) e dove il potente Magisterium, un'istituzione di stampo religioso, controlla completamente la società ostacolando il libero pensiero. Quando il professor Asriel, uno dei pochi accademici che professano il diritto alla ricerca e all'autonomia della scienza, scopre che una misteriosa polvere potrebbe aprire le porte verso altri universi, il Magisterium tenta di mettergli i bastoni fra le ruote, non potendo tollerare l'esistenza di mondi che il suo potere non ha ancora raggiunto. Lyra, figlia di Asriel, lo aiuterà grazie all'alethiometro, la "bussola d'oro" del titolo, un misterioso oggetto che opportunamente consultato può rivelare "la verità". Pur edulcorata rispetto ai libri, la metafora anti-religiosa è piuttosto esplicita: alla resa dei conti, però, delude un po' il fatto che i "buoni" non utilizzino la ragione ma semplicemente la forza, mentre sembrano proprio gli oscurantisti del Magisterium quelli più propensi ad affidarsi alla scienza e alla tecnologia (vedi gli insetti meccanici spia o il laboratorio fra i ghiacci). L'operazione di intercisione, con la quale i bambini vengono separati dai loro daemon non ancora stabilizzati, ricorda la circoncisione, con la quale si viene separati da un pezzetto del proprio corpo: "è solo un taglietto", minimizza più volte il personaggio di Nicole Kidman. A parte proprio la Kidman, bella e perfida, i grandi nomi del cast compaiono sullo schermo soltanto per pochi minuti (Daniel Craig, Eva Green) o addirittura per pochi secondi (Christopher Lee), lasciando ampio spazio ai bambini e agli animali in computer grafica (notevoli soprattutto i feroci orsi bianchi, una vera e propria razza senziente che convive con gli uomini). I daemon, impersonificazione dell'anima dei personaggi, ricordano per certi versi gli stand di JoJo. Alcuni critici considerano la trilogia una sorta di risposta atea al ciclo di Narnia di C.S. Lewis, che Pullman ha accusato di "propaganda religiosa" ma con il quale ha narrativamente numerosi punti in comune (addirittura entrambi iniziano con una ragazzina che si nasconde in un guardaroba!). Anche se il film attenua molto – e in certi punti fa scomparire del tutto – i temi anti-religiosi presenti del libro originale, questo non ha impedito alle solite organizzazioni oltranziste e bigotte di insorgere contro i produttori per aver "osato" trasporre su pellicola un testo del genere: da notare che le proteste non si sono rivolte contro i libri (dove le idee dell'autore erano più evidenti, ma già pubblicati da tempo e passati sotto silenzio) bensì contro il film (dove tali idee erano rese più innocue ed edulcorate), colpevole di poter risvegliare l'attenzione verso il materiale di partenza. Il tutto – come spesso accade con i bigotti – in barba alla libertà di pensiero e di opinione.

Aggiornamento: A quanto pare, visti i risultati non eccellenti al box office, la realizzazione dei due seguiti è stata sospesa.

19 dicembre 2007

Kamikaze girls (Tetsuya Nakashima, 2004)

Kamikaze girls (Shimotsuma monogatari)
di Tetsuya Nakashima – Giappone 2004
con Kyoko Fukada, Anna Tsuchiya
***

Rivisto in DVD, con Hiromi, in originale con sottotitoli.

Strepitosa commedia di costume dai tratti surreali e grotteschi, tratta da un popolare romanzo che ha dato vita anche a un manga: racconta dell'amicizia fra una sweet lolita e una yanki, due tipologie di teenager giapponesi che non potrebbero essere più diverse fra loro, espressioni di due delle molte subculture pop diffuse fra gli adolescenti del paese del Sol Levante. Momoko, insofferente alla squallida realtà che la circonda, preferirebbe vivere nella Francia del diciottesimo secolo e si agghinda in stile Rococò ("un periodo dimenticato dai libri di storia, al cui confronto il barocco è sobrio"). Assolutamente convinta di essere autosufficiente e di non aver bisogno di amici, deve ricredersi quando incontra la sboccata Ichiko, membro di una gang di ragazze motocicliste, che non cessa di coinvolgerla nei suoi problemi. Ambientato nella desolata prefettura di Ibaraki nel Giappone orientale, descritta come il regno del conformismo e del cattivo gusto, il film alterna momenti di comicità demenziale a meditazioni esistenziali, sequenze d'azione animate a situazioni da sitcom, riuscendo a tracciare contemporaneamente un elogio dell'amicizia e un incitamento a seguire la propria strada e le proprie passioni senza curarsi delle opinioni di chi sta intorno. Memorabile l'abbigliamento di Momoko, composto esclusivamente dai vestiti di pizzo (con immancabile ombrellino) che la ragazza acquista nel negozio "Baby, the stars shine bright" (che esiste davvero!) e che indossa in ogni momento e ogni situazione, così come i suoi commenti acidi di fronte al comportamento ingenuo e inopportuno dell'amica Ichiko. Notevole anche la parte iniziale del film, nella quale la narratrice (Momoko stessa) ci introduce al suo mondo e alla sua storia. Qualche critico l'ha definito un incrocio fra "Ghost world" e "Thelma & Louise".

18 dicembre 2007

Gli aristogatti (W. Reithermann, 1970)

Gli aristogatti (The Aristocats)
di Wolfgang Reithermann – USA 1970
animazione tradizionale
**1/2

Rivisto in DVD, con Elena e Marisa.

Nella Parigi del 1910, una nobildonna decide di lasciare in eredità tutte le proprie sostanze alla gatta Duchessa e ai suoi tre micini. L'avido maggiordomo cerca allora di sbarazzarsi degli animali, ma questi vengono salvati e ricondotti a casa dal gatto randagio Romeo. Il ventesimo "classico" d'animazione della Disney, il quarto diretto da Woolie Reithermann e il primo completamente realizzato dopo la morte di Walt, si infila nel solco aperto da "La carica dei 101": storie di animali parlanti che vivono a fianco degli esseri umani e sono protagonisti, spesso a loro insaputa, di pericolose avventure in un setting urbano ed europeo. Non eccezionale, la pellicola è comunque godibile anche se non spinge più di tanto sulla dicotomia fra gatti aristocratici e randagi: peccato, ne sarebbe potuto venir fuori qualcosa di più interessante. Ancora una volta, dopo "Il libro della giungla", la colonna sonora si affida al jazz: del gruppo dei gatti musicisti guidato da Scrat Cat fanno parte felini di varie nazionalità (e c'è anche un gatto italiano, anzi napoletano, che suona la fisarmonica). Al fianco dei mici si muovono molti altri animali che li aiutano e che parlano fra loro (soltanto gli esseri umani rimangono esclusi da questi dialoghi inter-specie): un topolino detective (Groviera), due cani attaccabrighe (Napoleone e Lafayette), una cavalla (Frou Frou), due oche inglesi (Guendalina e Adelina) e il loro zio ubriacone (Reginaldo). La canzone dei titoli di testa è cantata da Maurice Chevalier.
Nella versione italiana quasi tutti i nomi sono stati alterati rispetto all'originale: in particolare il randagio Romeo ("er mejo del Colosseo") era in realtà irlandese (Thomas O'Malley), mentre Minou, Matisse e Bizet si chiamavano Marie, Toulose e Berlioz (curioso il cambio del nome degli ultimi due: motivi "artistici" o semplicemente fonetici?).

17 dicembre 2007

Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante (P. Greenaway, 1989)

Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante (The Cook The Thief His Wife & Her Lover)
di Peter Greenaway – GB/Francia 1989
con Michael Gambon, Helen Mirren
**1/2

Visto in DVD.

Un delinquente ricco, buzzurro e volgare trasforma un raffinato ristorante francese nella sua corte, recandovisi di frequente con la moglie e i suoi scagnozzi. La donna, continuamente umiliata, intreccia una relazione clandestina con uno sconosciuto incontrato proprio nel locale. I loro incontri amorosi avvengono in cucina, con la benedizione del cuoco che li protegge. Quando il marito scoprirà tutto, laverà l'onta uccidendo il rivale. Ma la moglie, con l'aiuto dello chef, preparerà a sua volta una crudele vendetta degna di una tragedia greca. Teatrale e scenografico come al solito, raffinato e sontuoso grazie alla fotografia colorata di Sacha Vierny, ai costumi di Jean Paul Gaultier e alla musica di Michael Nyman, questa storia di sesso, morte e gastronomia è uno dei film più popolari di Greenaway grazie anche al fatto di essere stato distribuito da una major (la Universal). I lenti carrelli orizzontali trasportano i personaggi e lo spettatore dalla barocca sala da pranzo all'affollata e caotica cucina, simile a uno studio cinematografico, dove alimenti e utensili si confondono e dove il canto di un ragazzino dalla voce bianca si integra nella colonna sonora. I salumi, le carni, i pesci e i piatti d'argento contribuiscono a rendere alcune scene delle vere e proprie nature morte, ma resta memorabile anche la vetusta biblioteca dove si rifugiano i due amanti. La Mirren non si fa problemi a mostrarsi nuda, mentre nel cast c'è anche Tim Roth.

16 dicembre 2007

Three... extremes (aavv, 2004)

Three... extremes (Saam gaang yi)
di Takashi Miike, Fruit Chan, Park Chan-wook – Giappone/Hong Kong/Corea del Sud 2004
**

Visto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Il secondo capitolo della serie "Three..." è decisamente migliore del primo, grazie alla presenza di tre autentici maestri orientali dell'horror e dell'inquietudine. Tuttavia rimango ancora un po' deluso, ma forse è proprio il genere che non mi appassiona. Il migliore, ancora una volta, mi è sembrato l'episodio hongkonghese, prodotto come il precedente da Peter Chan e splendidamente fotografato da Christopher Doyle.

"Box", di Takashi Miike (Giappone), con Kyoko Asegawa, Atsuro Watabe (**)
Una giovane scrittrice ha un incubo ricorrente, legato a una tragica esperienza della sua infanzia. Da bambina, insieme alla sorella gemella, lavorava infatti come contorsionista in uno spettacolo circense. Gelosa delle attenzioni che la sorella riceveva, la chiuse in una scatola e provocò accidentalmente il rogo nella quale essa scomparve. Magistralmente diretto, e sospeso fra atmosfere reali e oniriche, l'episodio si conclude però in maniera insoddisfacente e punta le sue carte soltanto su un'ambientazione non del tutto accattivante. Il difetto maggiore, però, è l'assenza della vena "folle" e stravagante di Miike, marchio di fabbrica delle sue opere migliori, che qui non offre nessuna sorpresa, né nel bene né nel male.

"Dumplings", di Fruit Chan (Hong Kong), con Miriam Yeung, Bai Ling (***)
Per tornare giovane, una matura attrice si rivolge a una sedicente maga che le propone di mangiare ravioli cinesi ripieni con la carne di feti umani, ogni volta cucinati in modo diverso. Nonostante alcuni spiacevoli effetti collaterali, la donna non riuscirà più a farne a meno. La maga, che si procura la materia prima rivolgendosi agli ospedali cinesi, pratica anche aborti clandestini: ma quando dovrà fuggire da Hong Kong perché le sue attività sono state scoperte dalla polizia, alla sua cliente non resterà che procurare la morte dello stesso figlio che sta crescendole in grembo pur di continuare la sua "dieta". Quasi un piccolo capolavoro, elegante e angosciante, molto più efficace degli altri episodi nell'affiancare l'orrore e la normalità, in un crescendo di dramma e di denuncia sociale (la maga commenta come i feti maschi siano più rari perché in Cina vengono abortite quasi esclusivamente le femmine). Il marito dell'attrice è Tony Leung Ka-fai.

"Cut", di Park Chan-wook (Corea del Sud), con Lee Byung-hun, Lim Won-hie (*1/2)
Un regista ricco e affermato viene sequestrato nella sua stessa casa, insieme alla moglie, da un pazzoide che non può sopportare come una persona che ha avuto così tanto dalla vita sia anche un uomo buono: vuole perciò costringerlo a compiere un atto spregevole, l'uccisione di una bambina innocente. La vera protagonista dell'episodio è però la scenografia: la casa del regista, incredibilmente identica al set dove sta girando un insolito film di vampiri, è infatti kitsch e surreale, con il pavimento a scacchiera, le pareti blu e l'arredamento bizzarro. Ricco di virtuosismi registici e di effetti speciali, il film si barcamena fra realtà e finzione, fra verità ed elaborata messa in scena, anche appoggiandosi a concetti non proprio originali (l'abbinamento fra registi e vampiri, la confusione fra cinema e vita reale), ma la recitazione scadente e la sceneggiatura sopra le righe impediscono ogni coinvolgimento emotivo. E alla fine rimane la stessa sensazione di inconsistenza che avevo provato guardando l'episodio in "Four rooms" di Tarantino, regista con il quale in effetti PCW ha più di un punto di comune.

15 dicembre 2007

Three (aavv, 2002)

Three (Saam gaang)
di Kim Ji-woon, Nonzee Nimibutr, Peter Chan – Corea del Sud/Thailandia/Hong Kong 2002
*1/2

Visto in DVD.

Film a episodi, con tre storie horror provenienti dall'estremo oriente. Peccato che soltanto una, la terza, valga la pena di essere vista. In seguito i produttori ripeteranno l'esperimento realizzando una seconda pellicola, intitolata "Three... extremes", che risulterà molto più interessante, soprattutto per i nomi dei registi coinvolti: Takashi Miike, Fruit Chan e Park Chan-wook.

"Memories", di Kim Ji-woon (Corea del Sud), con Jeong Bo-seok, Kim Hye-su (*)
Dopo che sua moglie è misteriosamente scomparsa nel nulla, un uomo è vittima di strane allucinazioni e comincia a soffrire di dissociazione mentale e di perdita di memoria. Nel frattempo, una misteriosa donna vestita di bianco come un fantasma si aggira per la metropoli, una città programmaticamente chiamata Neo Town. Superficiale e scontato, è un film che di buono ha soltanto la confezione e la fotografia. Il regista è lo stesso del noiosissimo "Two sisters".

"The Wheel", di Nonzee Nimibutr (Thailandia), con Suwinit Panjamawat, Kanyavae Chatiawaipreacha (*)
La maledizione che un anziano marionettista ha gettato sui propri burattini, impregnandoli con la sua stessa anima, causa numerosi morti in una comunità di artisti e danzatori. Confuso e poco interessante, a parte il setting nel mondo degli artisti di strada che ricorda in parte "Il maestro burattinaio" di Hou Hsiao-Hsien, non ha nemmeno un vero protagonista e non viene salvato neanche dal tono onirico.

"Going Home", di Peter Chan (Hong Kong), con Eric Tsang, Leon Lai (**1/2)
Un poliziotto si trasferisce ad abitare con il figlioletto in un colossale edificio che un tempo era una scuola. Quando il bimbo scompare, forse "rapito" da una misteriosa bambina fantasma che si aggira per il palazzo, l'uomo si reca a cercarlo dal vicino di casa e scopre che costui, un medico che si affida soltanto ai rimedi tradizionali e ripudia la medicina occidentale, cura e veglia da tre anni il cadavere della moglie, convinto che possa tornare in vita. Un'ambientazione davvero angosciante (nel suo piccolo, ricorda "Shining") e una situazione al tempo stesso surreale e da thriller rendono questo cortometraggio una piacevole sorpresa, superiore alla media degli horror orientali (genere che non amo molto). Bravi i due attori protagonisti, perfettamente all'altezza in parti non certo tipiche per loro (ed è sempre un piacere rivedere il simpatico Eric Tsang). La fotografia è di Christopher Doyle. Del bravo regista avevo già visto in passato alcuni film gradevoli ("Comrades, almost a love story" e i due episodi della serie "He's a woman, she's a man").

14 dicembre 2007

La promessa dell'assassino (D. Cronenberg, 2007)

La promessa dell'assassino (Eastern promises)
di David Cronenberg – USA/GB/Canada 2007
con Viggo Mortensen, Naomi Watts
***

Visto al cinema Plinius.

È il secondo film consecutivo in cui Cronenberg si affida a Viggo Mortensen come protagonista, e anche stavolta il "fisico" e carismatico Aragorn veste i panni di un personaggio che per quasi tutta la pellicola si colloca ambiguamente a metà strada fra il bene e il male, gemello per molti versi di quello di "A history of violence", di cui è praticamente un riflesso. Freddo (non per nulla è siberiano) e calcolatore, è l'autista e guardia del corpo del figlio di un boss della mafia russa a Londra, mentre Naomi Watts è un'infermiera del reparto maternità di un ospedale che entra in contatto con lui quando si mette a indagare sulle origini di una misteriosa ragazza morta di parto, mettendo in pericolo – senza saperlo – la famiglia criminale cui l'uomo è legato. Tornando a riflettere sui temi della famiglia, dell'identità e del passato, e senza risparmiare allo spettatore situazioni brutali e dettagli cruenti (i corpi subiscono tagli, mutilazioni, tatuaggi e violenze, in puro stile Cronenberg, anche se si resta comunque più dalle parti del film di genere che da quelle dell'indagine fisica/psicologica alla "Spider" o "Videodrome"), il regista canadese dipana lentamente una storia che emoziona su più livelli e colpisce per lo scarso utilizzo delle convenzioni hollywoodiane, anche se forse la mancanza di colpi di scena (i pochi che ci sono risultano abbastanza telefonati) impedisce al film di diventare un capolavoro. Scandita dalla lettura di brani del diario della ragazza morta, la pellicola si addentra anche nei meandri dei rituali della criminalità russa. Molto bella la scena del combattimento nel bagno pubblico e anche quella, nel finale, del salvataggio della bambina nel vicolo. Kirill, il personaggio interpretato da un ottimo Vincent Cassel (ma tutto il cast è eccellente), si arrabbia se lo chiamano "checca", anche se per tutto il film l'attrazione omoerotica fra lui e Viggo Mortensen è evidente. Il doppiaggio italiano non ha fatto troppi danni all'accento russo di Mortensen e Cassel, ma sarei comunque curioso di sentirlo in lingua originale.

13 dicembre 2007

Come d'incanto (Kevin Lima, 2007)

Come d'incanto (Enchanted)
di Kevin Lima – USA 2007
con Amy Adams, Patrick Dempsey
*1/2

Visto al cinema Plinius, con Hiromi.

In un mondo a cartoni animati, dove le persone parlano con gli animali o si esprimono cantando, una (quasi) principessa – un mix fra Biancaneve, Cenerentola e la Bella Addormentata – sta per sposare il suo principe azzurro. Ma la gelosa regina cattiva, madre del suddetto principe, la fa precipitare in un'altra dimensione, ben più caotica... la New York dei giorni nostri! Ennesima commistione fra live action e personaggi animati (anche se l'interazione fra le due parti è praticamente inesistente... non siamo certo di fronte a un nuovo "Roger Rabbit"), il film, diretto dal regista di "Tarzan", è una discreta commedia sentimentale che però per i miei gusti risulta troppo sdolcinata e poco soddisfacente. L'autoironia disneyana rimane soltanto in superficie, nulla a che vedere con la dissacrante (ma sterile) satira di "Shrek" o l'intelligente rivisitazione delle fiabe presente nel fumetto "Fables" (divertente, comunque, la scena in cui la protagonista chiama gli animaletti di New York ad aiutarla a pulire la casa, e si presentano soltanto ratti, piccioni e scarrafoni), e tutto si risolve nell'elogio degli ideali e dei buoni sentimenti "fiabeschi" così cari agli americani in fuga dal mondo reale. Il bellissimo "Last action hero" era molto più profondo ed efficace nell'affrontare l'identico tema del passaggio da un mondo fittizio, infantile e codificato, alla dura "realtà" (metacinematograficamente parlando). Notevoli comunque gli attori di contorno che interpretano i personaggi classici delle fiabe (il principe, il paggio, la strega cattiva): James Marsden, Timothy Spall, Susan Sarandon. Nulla di eccezionale gli effetti speciali (e nemmeno i cartoon della parte iniziale sono particolarmente accattivanti), e praticamente inutile il personaggio dello scoiattolino.

Elf (Jon Favreau, 2003)

Elf (id.)
di Jon Favreau – USA 2003
con Will Ferrell, James Caan
*

Visto in TV, con Hiromi.

Insulso film natalizio, nobilitato soltanto dalla presenza di James Caan nei panni del padre del protagonista. Ferrell è un essere umano che viene "adottato" dagli elfi di Babbo Natale che vivono al Polo Nord (personaggi tipici del folklore statunitense, fortunatamente sconosciuti da noi se non per filmacci come questo). Dopo aver combinato l'ennesimo guaio, viene scacciato e si rifugia a New York in cerca del suo vero padre. Ingenuo, stupido e ghiotto soltanto di dolci, riuscirà addirittura a trovare l'amore (ma la ricerca di una donna non stona con la natura infantile del personaggio?) e soprattutto a riportare lo "spirito natalizio" nel cuore degli abitanti di New York e in particolare in quello del proprio padre. Ho iniziato a vedere il film casualmente, con Hiromi, quando era già iniziato da dieci-quindici minuti: è la tipica pellicola che viene programmata in televisione sotto le feste, visto che non ha altro motivo di esistere.

12 dicembre 2007

Fuoco fatuo (Louis Malle, 1963)

Fuoco fatuo (Le feu follet)
di Louis Malle – Francia 1963
con Maurice Ronet, Alexandra Stewart
**1/2

Visto in DVD.

Alain, ex alcolizzato, fatica a tornare alla sua vita precedente, si sente fuori posto nell'attiva e gaudente società parigina e preferirebbe quasi non dover lasciare la clinica di Versailles dove è stato disintossicato. Medita così di suicidarsi dopo essere passato per l'ultima volta a salutare gli amici di un tempo. Tratto da un romanzo di Drieu de la Rochelle ispirato alla storia vera del suo amico Jacques Rigaut, il bel film di Malle è freddo ma intenso, disperato ma lucido, costruito tutto intorno a un personaggio angosciato, sperso e spaesato che preferisce "fermarsi" piuttosto che andare avanti e invecchiare. "Non ho voglia di tornare alla vita", dice al medico ottimista che lo aveva in cura. Pessimista e inerte, non riesce a essere scosso neppure dagli amici (un egittologo borghese con una splendida moglie; un gruppo di poeti squattrinati, suoi ex compagni di bagordi, fra i quali c'è anche Jeanne Moreau; un paio di attivisti politici clandestini). Ogni cosa sembra sfuggirgli dalle mani: non riesce più a desiderare nulla e addirittura le donne gli fanno paura, a lui che un tempo era tanto piacente. Che abbia programmato da tempo e con freddezza il suicidio è evidente da tanti piccoli particolari: la data segnata sullo specchio, i molti accenni alla sua "partenza", lo scarso interesse a riallacciare una relazione con la moglie o con le altre donne della sua vita, i tentativi di tracciare un bilancio della propria esistenza ("Non ho fatto altro che aspettare che succedesse qualcosa"). Le frasi del protagonista (che rendono evidente l'origine letteraria della pellicola) si fanno via via più indicative man mano che il film procede verso la conclusione, fino al biglietto che lascia prima di compiere l'ultimo gesto: "I nostri legami sono diventati deboli, mi uccido per renderli più forti".

4 dicembre 2007

Grizzly Man (W. Herzog, 2005)

Grizzly Man (id.)
di Werner Herzog – USA 2005
con Timothy Treadwell
***1/2

Visto in DVD con Giovanni e Marisa, in originale con sottotitoli.

Uno dei documentari più belli e interessanti di Herzog, con un protagonista che non sfigurerebbe a fianco di quelli dei suoi film di fiction: Timothy Treadwell, un ragazzo che ha scelto di passare l'estate per tredici anni consecutivi in compagnia degli orsi selvaggi dell'Alaska, sfidando il pericolo della coabitazione con loro fino a quando non è stato ucciso e divorato proprio da uno dei suoi fedeli 'amici'. Utilizzando le magnifiche e affascinanti immagini riprese da Treadwell negli anni precedenti alla sua morte, Herzog realizza qualcosa che è ben più di un film di montaggio: ne esce infatti un indimenticabile ritratto di una personalità sicuramente disturbata, che rifiuta il mondo degli uomini per rifugiarsi in quello della natura e degli animali in maniera decisamente incosciente, anche se consapevole dei rischi che sta correndo. La personalità di Timothy viene ricostruita frammento dopo frammento dalle testimonianze di parenti e amici, oltre che dai filmati girati da lui stesso, mostrandone tutte le contraddizioni e le speranze, i sogni e le idiosincrasie, e facendo riflettere nel contempo – come sottolinea anche Ghezzi nel commento al DVD – sul ruolo del cinema e della messa in scena, sulla consapevolezza della morte e sull'affinità fra uomo e natura. È ironico come proprio Timothy, che non avrebbe mai voluto veder far del male ai suoi amati orsi, sia stato involontariamente la causa dell'abbattimento dell'animale che lo ha ucciso. Dal poco che veniamo a conoscere del suo background prima di trasformarsi nell'uomo-grizzly, scopriamo invece come il suo tentativo di fuggire dal "mondo degli uomini" per tuffarsi in quello degli animali sia stato il risultato di una reazione a un ambiente (anche familiare) nel quale faceva fatica a trovare il proprio posto. Pur non avendo girato in prima persona la maggior parte delle sequenze presenti nel film, con il suo sapiente montaggio Herzog crea un'opera memorabile e di forte impatto, da annoverare fra i migliori documentari degli ultimi anni e forse di tutta la storia del cinema.

Essere e avere (N. Philibert, 2002)

Essere e avere (Être et avoir)
di Nicolas Philibert – Francia 2002
con Georges Lopez
***

Visto in DVD in originale con sottotitoli.

Interessante documentario che segue per un intero anno il lavoro di un insegnante di una scuola elementare di un villaggio fra le montagne dell'Auvergne, in Francia. L'unica classe dell'istituto ospita – spesso contemporaneamente – bambini la cui età va dai 4 ai 10 anni: la pazienza, la dedizione e l'occasionale severità dell'educatore, quasi alle soglie della pensione dopo trentacinque anni di insegnamento, fanno da contraltare alla spontaneità, alla simpatia o alle difficoltà relazionali dei suoi piccoli allievi. Fuori dalla classe, invece, è protagonista la natura con le sue stagioni, gli animali di campagna, il vento, la neve e la pioggia. Il regista segue i bambini anche durante il tempo libero, i giochi, la vita in casa (fra gli episodi più divertenti c'è quello in cui un'intera famiglia cerca di aiutare il piccolo nel fare alcuni esercizi di matematica), senza mai interferire con la narrazione inserendo una voce fuori campo o un commento didascalico. Alcuni dei piccoli alunni sembrano particolarmente chiusi e introversi, altri sono decisamente troppo energici e scalmanati, altri ancora – come l'indimenticabile JoJo – appaiono dotati di una simpatia e di una personalità unica. Un grazie a Daniele per avermi consigliato e prestato il DVD.

3 dicembre 2007

Alice (Jan Švankmajer, 1988)

Alice (Neco z Alenky)
di Jan Švankmajer – Cecoslovacchia 1988
Animazione a passo uno
**1/2

Visto in DVD con Hiromi, in inglese.

Questa versione di "Alice nel paese delle meraviglie", realizzata in stop motion dal grande animatore ceco (le cui opere hanno ispirato, fra gli altri, Terry Gilliam e Tim Burton) è abbastanza fedele nella forma (ma non nella sostanza) sia al libro sia alla versione disneyana. Quello che cambia è il mood, decisamente più angosciante e claustrofobico rispetto a quello della Disney. La bambina, unica attrice in carne e ossa del film (anche se quando riduce le proprie dimensioni viene "sostituita" da una bambola, animata a passo uno come il resto dei personaggi), attraversa stanze e ambientazioni che sembrano uscite da un film di Tarkovskij, è alle prese con oggetti minacciosi e polverosi degni di un museo di storia naturale dell'ottocento, lotta contro animali e pupazzi che fanno davvero paura (conigli impagliati, scheletri di uccelli, marionette a molla) ed esplora un mondo surreale e violento popolato dagli oggetti e dai giocattoli della sua stessa stanza, trasfigurati attraverso l'immaginazione. Il film è espressionista al punto giusto e non disdegna di ricorrere alla ripetizione ossessiva di temi e situazioni (quanti tavolini, scaffali, chiavi, biscotti!). Più che un sogno, quello di Alice è un incubo, anche se l'intera vicenda rimane volutamente ambigua e probabilmente si tratta di una storia che la ragazzina racconta a sé stessa, visto che è proprio lei a "dare la voce" agli altri personaggi.