30 ottobre 2007

Expect the unexpected (P. Yau, 1998)

Expect the unexpected (Fai seung dat yin)
di Patrick Yau – Hong Kong 1998
con Simon Yam, Lau Ching Wan
**1/2

Rivisto in DVD, con Albertino e Ghirmawi.

Prodotto dalla Milkyway di Johnnie To, sarebbe quasi un "normale" poliziesco hongkonghese se non fosse per il finale sorprendente e dissacratorio, programmaticamente annunciato sin dal titolo, che lo rende un film indimenticabile, nel bene e nel male. La storia è incentrata su una squadra speciale di poliziotti, al cui interno spiccano Simon Yam (il capo, serio e severo) e il sempre ottimo Lau Ching Wan (che ha invece un approccio più leggero e non esita a trasgredire le regole quando necessario). La loro caccia a una banda di violenti criminali che progetta un assalto a un furgone blindato si intreccia con tutta una serie di vicende sentimentali, visto che prima Yam e poi Lau riallacciano una relazione con una vecchia compagna di scuola (Yoyo Mung) che lavora come cameriera in un bar ed è coinvolta come testimone nell'indagine. Quasi tutta la parte centrale della pellicola, più che un poliziesco, sembra dunque una commedia romantica. Ma è appunto il finale, sorprendente anche se un po' costruito a tavolino, nichilista, pessimista e anti-catartico nel mettere in scena la morte degli eroi in maniera così gratuita e inutile, a caratterizzare il film e a rompere uno dei luoghi comuni più tabù dei polizieschi d'azione, contribuendo alla decostruzione di un genere quasi come i film di Peckinpah avevano fatto per il western. Anche piccoli altri elementi (l'inchiesta per corruzione – appena suggerita – sul capo della polizia; il personaggio del cinese mainlander interpretato da Lam Suet; la difficoltà a relazionarsi, evidente anche nei personaggi di Macy (Ruby Wong), del giovane Jimmy con le sue troppe fidanzate e del vecchio Ben, indeciso fra la moglie incinta e l'amante malata) aggiungono spessore a una pellicola che evidentemente risente del clima di insicurezza che l'ex colonia britannica viveva a pochi mesi dalla riannessione alla Cina. Non male, soprattutto nelle scene d'azione, la regia di un Patrick Yau che dopo alcuni buoni film, tutti all'ombra di Johnnie To ("The odd one dies", "The longest nite"), si è dedicato alla tv.

29 ottobre 2007

L'ultimo dei Mohicani (M. Mann, 1992)

L'ultimo dei Mohicani (The last of the Mohicans)
di Michael Mann – USA 1992
con Daniel Day-Lewis, Madeleine Stowe
**

Visto in DVD, con Hiromi.

Nathan “Occhio di Falco” (Daniel Day-Lewis), trapper bianco adottato dagli indiani Mohawk, e i suoi compagni, pur rifiutando di prender parte alla guerra fra inglesi e francesi nelle colonie americane come parte di una milizia civile, ne restano coinvolti quando cercano di salvare le due giovani figlie (Madeleine Stowe e Jodhi May) di un colonnello britannico dalla sete di vendetta di un indiano Urone che si è alleato con i francesi. Tratto dal classico romanzo di Fenimore Cooper (ma pare che la sceneggiatura si basi più sulle precedenti versioni cinematografica del 1920 e del 1936 che non sul libro), un filmone d'avventura fin troppo tradizionale e vecchio stile, di puro intrattenimento e anche di buona fattura, ma piuttosto superficiale a livello di personaggi e di contenuti: fosse stato realizzato negli anni '50 mi avrebbe probabilmente colpito di più. Alla figura del protagonista si è ispirato Gianfranco Manfredi per l'aspetto del suo Magico Vento, ma (per restare in tema di fumetti) il film ricorda semmai le più stereotipate avventure di Tex Willer, soprattutto nella seconda parte, con personaggi poco caratterizzati e situazioni prevedibili e mai coinvolgenti fino in fondo. Improbabile, per esempio, come in ben due attacchi a tradimento contro una colonna di soldati inglesi muoiano sempre tutti tranne l'ufficiale Hayward e le due ragazze, personaggi che evidentemente devono sopravvivere fino alla fine soltanto per esigenze di copione. Fra le poche sorprese, nel finale si scopre che "l'ultimo dei mohicani" non è Daniel Day-Lewis ma uno dei suoi compagni. Ai bei paesaggi del Nord America si sovrappone un tema musicale invadente e onnipresente, ormai indissolubilmente legato a un celebre spot pubblicitario. Chi lo sa, magari il film sarebbe stato migliore se a dirigerlo ci fosse stato un regista visionario e coraggioso come Werner Herzog, anziché uno piatto e derivativo come Mann.

Madagascar (Darnell, McGrath, 2005)

Madagascar (id.)
di Eric Darnell, Tom McGrath – USA 2005
animazione digitale
**

Rivisto in DVD, con Hiromi, Martin e Luisa.

Quattro animali dello zoo di New York si ritrovano catapultati nella vera "natura" dopo un naufragio sulle coste del Madagascar. Se per la zebra, l'ippopotamo e la giraffa non ci sono problemi a vivere in maniera selvatica (si fa per dire), il leone dovrà imparare a tenere a freno i propri istinti carnivori per non divorare i suoi stessi amici. Tutti insieme aiuteranno un gruppo di lemuri ad avere la meglio sui loro nemici naturali, i fossa. Di fronte alla qualità dei film animati in CG della Pixar, quelli di altre case (e quelli della DreamWorks in particolare) sfigurano enormemente, e non solo dal punto di vista tecnico. Il problema principale è la loro natura puramente character-based: i primi venti minuti, quelli in cui vengono presentati i personaggi, sono molto simpatici. Ma quando poi si tratta di far vivere a quei personaggi una storia, ecco uscir fuori tutti i limiti di una sceneggiatura leggera e banalissima, che non può far altro che accumulare citazioni gratuite come se piovesse: visive ("American Beauty", "Il signore delle mosche", "Matrix"), sonore ("Momenti di gloria", "New York, New York") o narrative ("Cast Away"). Alla fine, più dei quattro protagonisti, restano impressi alcuni personaggi minori come i simpatici pinguini dirottatori (il cui ruolo è infatti stato ingigantito dagli animatori rispetto allo storyboard originale), che daranno vita a uno spin-off, oppure i lemuri che danzano sulle note di "I Like to Move It" (cantata da Sacha Baron Cohen). L'ottimo riscontro di pubblico garantirà comunque due sequel.

24 ottobre 2007

Ho sposato una gangster (Cho Jin-gyu, 2001)

Ho sposato una gangster (Jopog manura, aka My wife is a gangster)
di Cho Jin-gyu – Corea del Sud 2001
con Shin Eun-kyung, Park Sang-myeon
**1/2

Rivisto in DVD, con Monica, Roberto e Marisa.

L'avevo visto anni fa al Mifed, in coreano e in una saletta strapiena (tutti i posti occupati e moltissimi, fra cui me, in piedi), mentre da qualche tempo è uscito anche in italiano in DVD. Si tratta di una divertente commedia d'azione su una ragazza-gangster, a capo di una banda di yakuza (evidentemente i "mafiosi" in Corea sono simili a quelli giapponesi), che deve sposarsi suo malgrado per esaudire l'ultimo desiderio della sorella morente. L'umorismo, che nasce soprattutto dalla figura della "donna forte" alle prese con situazioni più femminili alle quali non è abituata, si alterna con scene melodrammatiche e con sequenze d'azione anche abbastanza violente, ma il film soffre a volte di poco equilibrio nel mettere insieme i vari elementi. La protagonista, comunque, è genuinamente simpatica. Campione d'incassi in Corea, ha generato due seguiti (avevo visto, sempre al Mifed, il capitolo due, leggermente meno bello anche se comunque gradevole) e ai tempi si diceva che la Miramax ne avesse acquistato i diritti per farne un remake.

23 ottobre 2007

Le petit soldat (J.L. Godard, 1960)

Le petit soldat
di Jean-Luc Godard – Francia 1960
con Michel Subor, Anna Karina
**

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Bruno, disertore e fotoreporter francese, si rifugia a Ginevra dove entra in contatto con un gruppo terrorista anti-algerino. Incaricato di uccidere un commentatore della radio svizzera sospettato di simpatie filo-arabe, dapprima si rifiuta e poi non riesce a eseguire l'ordine per una serie di coincidenze. Braccato dai suoi stessi compagni che lo ritengono un traditore, e innamorato di una ragazza (l'esordiente Anna Karina) che simpatizza per il FLN, viene rapito e torturato da un commando algerino e infine accetta di portare a termine la missione assegnatagli. Il finale, cinico e sbrigativo, convince poco. Ambientato in una Svizzera mai così neutrale e ovattata (Godard sopprime persino i rumori ambientali, lasciando spazio soltanto alla voce fuori campo dei pensieri del protagonista e alla musica di sottofondo), il secondo lungometraggio del regista risulta distante e incerto, e fece scalpore soprattutto per aver osato affrontare il tema della guerra in Algeria, quasi tabù per il cinema francese (fra le poche eccezioni, "Muriel" di Resnais prima e "Niente da nascondere" di Haneke poi). Mentre i censori francesi ne vietarono l'uscita fino al 1963 in quanto ritenuto filo-algerino, la critica militante di sinistra lo accusò per la rappresentazione della tortura da parte degli arabi oppressi e per la mancanza di una decisa presa di posizione. In effetti il protagonista è ambiguo, ideologicamente confuso e tutt'altro che convinto. Sembra interessarsi più di arte (discute di pittura e di musica classica) che di politica, e si dichiara contro tutti i nazionalismi. Interessanti alcuni dialoghi sulla realtà e sul cinema ("La fotografia è la verità, e il cinema è la verità 24 volte al secondo"). Primo di una lunga serie di film politici di Godard, contribuì a infrangere la convinzione che la Nouvelle Vague non sapesse o volesse affrontare temi di attualità (Godard disse: "si rimprovera alla Nouvelle Vague di mostrare solo gente a letto; voglio mostrare adesso gente che fa politica e che non ha tempo di andare a letto").

22 ottobre 2007

Fino all'ultimo respiro (J.L. Godard, 1959)

Fino all'ultimo respiro (À bout de souffle)
di Jean-Luc Godard – Francia 1959
con Jean Paul Belmondo, Jean Seberg
***

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

Primo lungometraggio di Godard e uno dei film cardine della Nouvelle Vague, la corrente con la quale il regista e i suoi colleghi, tutti ex critici militanti della rivista "Cahiers du Cinéma" (da François Truffaut, qui autore del soggetto, a Éric Rohmer, da Jacques Rivette ad André Bazin) rivoluzionarono il mondo del cinema dopo aver teorizzato la "politica degli autori". Il furfante Michel (un amorale e indimenticabile Belmondo, che esordisce dicendo "Dopotutto, sono un idiota"), mentre sta tornando a Parigi con un'auto rubata, uccide un poliziotto. Braccato dalle forze dell'ordine, cerca di riscuotere il denaro che gli deve un amico e di convincere la bella americana Patrizia (un'altrettanto indimenticabile Seberg, con un taglio di capelli che all'epoca fece furore) a seguirlo fino in Italia. Ma sarà proprio la ragazza, per scoprire se lo ama davvero o no, a denunciarlo alla polizia. Al tempo della sua uscita rappresentò senza dubbio una notevole rottura delle regole del cinema (il protagonista parla con sé stesso oppure con il pubblico; il montaggio è frammentato e "visibile", mentre il cinema classico faceva di tutto per renderlo impercettibile allo spettatore), della narrazione (la storia assume toni da documentario, per esempio quando si sovrappone con eventi di cronaca come la visita del presidente americano in Francia), della messinscena (lungo le strade, i passanti guardano la camera da presa), della morale (il rapporto "libero" fra i due personaggi principali). Oggi questi aspetti non costituiscono più una novità, ma il film piace ancora per la spontaneità dei personaggi (i dialoghi sembrano quasi improvvisati, e a volte forse lo sono davvero), per l'andamento lineare della vicenda ("Qualsiasi cosa facevano i personaggi poteva essere integrata al film", disse Godard), per i piccoli particolari (Belmondo che si passa il pollice sulle labbra, le chiusure a iride da cinema muto), per le citazioni (Michel che ammira Bogart sulla locandina di un film e si identifica con lui; un altro cinema che proietta "Hiroshima mon amour" di Alain Resnais; una ragazza vende i "Cahiers" per la strada; Jean-Pierre Melville che interpreta lo scrittore Jean Parvulesco, intervistato da Patrizia), per non parlare della bella atmosfera "aperta" della Parigi di quegli anni, e della vivacità tecnica e culturale che trasuda dalla pellicola. La prima scena cui Truffaut e Godard pensarono è quella in cui la Seberg percorre gli Champs Elysées per vendere il "New York Herald Tribune". Il film è ispirato da un fatto di cronaca realmente accaduto, ma i due autori volevano inizialmente rifarsi alla tradizione dei noir e dei criminal movie americani (in particolare allo "Scarface" di Howard Hawks). In un'intervista, però, Godard affermò di essersi reso conto soltanto in seguito di aver realizzato invece una sorta di "Alice nel paese delle meraviglie".

21 ottobre 2007

SPL (Wilson Yip, 2005)

SPL (Sha Po Lang)
di Wilson Yip – Hong Kong 2005
con Simon Yam, Donnie Yen, Sammo Hung
**1/2

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli.

Avevo un po' perso di vista Wilson Yip, che dopo i due capolavori "Bullets over summer" e "Juliet in love" della fine degli anni '90 si era dato a un cinema più commerciale e meno soddisfacente (vedi l'inutile "Skyline cruisers"). Anche se non all'altezza dei due splendidi film prima citati, questo "SPL" si è rivelato un ottimo e vibrante poliziesco d'azione su classici temi del cinema hongkonghese: amicizia e solidarietà, onore e rispetto, giustizia e vendetta, con alcune svolte narrative inaspettate e un trio di ottimi attori del genere: Simon Yam fa il suo mestiere come al solito, Donnie Yen è sempre bravissimo nei combattimenti e nella coreografia delle scene d'azione (girati in maniera classica e senza inutili movimenti di camera che li rendano confusi, anche se poi nel resto del film qualche tocco autoriale c'è eccome), mentre vedere Sammo Hung nella parte del cattivo (con tanto di pizzetto e sigaro) fa uno strano effetto, ma se la cava egregiamente.
Qi Sha, Po Jun e Tan Lang sono tre stelle che, secondo l'astrologia cinese, possono determinare il destino degli esseri umani a seconda del loro allineamento. Pur di arrestare Wong Po, un criminale cui danno la caccia da oltre tre anni, l'ispettore Chan e i suoi uomini non esitano a fabbricare false prove contro di lui, anche perché il tempo stringe: Chan è alla vigilia della pensione e un tumore al cervello lo sta uccidendo. I suoi metodi sleali non vanno a genio al nuovo caposquadra Ma (il vero protagonista positivo della vicenda), ma nemmeno lui riesce ad fermare la catena di sanguinose vendette incrociate. Oltre alla relatività del bene e del male (i "buoni" non sono migliori dei "cattivi"), la pellicola affronta a più riprese il tema della paternità, già caro a Yip sin da "Juliet in love": Chan ha adottato la figlia di due testimoni che Wong ha fatto assassinare; lo stesso Wong desidera sopra ogni altra cosa avere un bambino; quasi tutto il film si svolge il giorno della festa del papà (nel 1997, anno del ricongiungimento di Hong Kong con il suo "genitore", la Cina), con uno degli uomini di Chan che sta per rivedere per la prima volta dopo molti anni la giovane figlia, e un altro che ha rotto da tempo i rapporti con il proprio padre. L'inizio e il finale, in riva al mare, sono quasi "Kitaniani" e incorniciano una storia dove poesia e violenza vanno di pari passo.

18 ottobre 2007

Ratatouille (Brad Bird, 2007)

Ratatouille (id.)
di Brad Bird [e Jan Pinkava] – USA 2007
animazione digitale
***1/2

Visto al cinema Colosseo, con Hiromi.

E alla fine, volenti o nolenti, si ritorna sempre ai topi, come se l'animazione (disneyana o no) non ne potesse proprio fare a meno. Già l'anno scorso il miglior film animato occidentale, "Giù per il tubo", vedeva come protagonista un topolino finito nelle fogne. Quest'anno l'ennesimo capolavoro Pixar (ormai un vero e proprio marchio di garanzia) presenta, più che un topo, un simpaticissimo ratto che – a differenza dei propri simili – ha avversione per la spazzatura e nutre invece ambizioni di alta cucina, al punto da diventare – con l'aiuto di un cuoco giovane e inesperto – il più bravo e raffinato chef di tutta Parigi. Diretto dal Brad Bird già responsabile de "Gli incredibili" (ma si vede chiaramente anche la mano del suo assistente Jan Pinkava, quello de "Il gioco di Geri"), Il film parte un po' lentamente ma ben presto raggiunge livelli eccezionali, sia tecnicamente sia narrativamente. La scena più bella e commovente, nel finale, è quella in cui il severo critico Anton Ego (il cui personaggio e le cui riflessioni sul ruolo "parassitario" della critica rispetto all'arte potrebbero sposarsi perfettamente con altri ambiti artistici, cinema compreso) assaggia per la prima volta la Ratatouille preparata dal piccolo topolino e piomba immediatamente – potremmo quasi dire "proustianamente" – nei suoi ricordi d'infanzia. Il film, che riesce a raffigurare il mondo dell'alta cucina in maniera niente affatto snob, brilla in effetti di luce propria: niente ammiccamenti, citazioni o parodie, la pellicola punta le proprie carte esclusivamente sulla storia (divertente ed emozionante) e sui personaggi. Mancano anche le spalle comiche appartenenti a specie animali differenti: nel mondo di Ratatouille ci sono soltanto ratti ed esseri umani. Memorabile il sistema con cui il ratto Remy controlla i movimenti dell'umano Linguini, manovrandolo tramite i capelli come se si trattasse di un robot. Ottime anche le scenografie e l'ambientazione: Parigi, la Ville Lumiére, la Senna e i suoi ponti immersi nella nebbia sono realistiche e romantiche. Per essere un film a stelle e strisce, ho notato soltanto due riferimenti alla rivalità e al modo in cui gli americani vedono i transalpini: la frase con cui si apre il film, "i francesi ritengono che la miglior cucina del mondo sia quella francese", e una a metà pellicola "Siamo francesi, quindi dobbiamo essere rudi". Un 'altra cosa che mi ha stupito è che si parla senza pudore della morte (uno dei personaggi principali, Gusteau, è morto; e di un altro, la madre di Linguini, si dice chiaramente che lo è) o dell'amore (la scena del bacio fra Linguini e Colette non è meno adulta che infantile). Curiosamente, invece, dal mondo dei topi sembra essere assente il sesso femminile (tranne che, brevemente, nei titoli di coda). In conclusione: il miglior film dell'anno (finora).

Animal crackers (V. Heerman, 1930)

Animal crackers (id.)
di Victor Heerman – USA 1930
con Groucho, Chico e Harpo Marx
***

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Anche il secondo lungometraggio dei fratelli Marx, come il precedente, è l'adattamento di un loro spettacolo teatrale. E come tale presenta numeri musicali, canti e balli che spezzettano un po' il ritmo della narrazione e annacquano il divertimento che sgorga spontaneo quando invece in scena ci sono i fratelli con le loro gag comiche. Rispetto a "The Cocoanuts", comunque, la confezione è migliore, così come le scenografie e la direzione degli attori. Groucho veste i panni dell'eccentrico esploratore Jeffrey T. Spaulding, appena ritornato da un viaggio in Africa. In suo onore si tiene un grande ricevimento nella villa della ricca Mrs. Rittenhouse (la sempre brava Margaret Dumont), durante la quale viene esibito un prezioso dipinto, "Dopo la caccia", del pittore francese Beaugard. Ma il quadro viene trafugato per ben due volte: la prima da parte di una vicina invidiosa che vuole sabotare la festa, la seconda dalla figlia della stessa signora Rittenhouse che vuole sostituirlo con una copia realizzata dal suo fidanzato per mostrare a tutti le sue capacità di artista. La presenza in qualità di musicisti di Chico (che per non suonare si fa pagare di più che per farlo) e del suo socio Harpo (solito disturbatore della quiete altrui) contribuisce ad aumentare la confusione. I personaggi dei tre fratelli sono ormai compiuti e definiti, e i rapporti fra loro (soprattutto quello fra Chico e Harpo) più affiatati: ma anche Zeppo fa un'apparizione, quella che per lui diventerà "classica" di segretario o assistente di Groucho. Da ricordare l'interminabile inno di benvenuto "Hooray for Captain Spaulding", il dialogo surreale fra Groucho e il mercante d'arte Roscoe W. Chandler, quello fra Groucho e Chico per trovare il ladro del dipinto ("Occorre domandare a chiunque si trovi in questa casa se ha preso la tela" – "Supponiamo che nessuno l'abbia presa" – "Allora possiamo chiedere nella casa accanto" – "Supponiamo che non vi siano case nei paraggi" – "Allora dobbiamo costruirne una" – ecc.), gli "strani interludi" dello stesso Groucho in cui si rivolge direttamente agli spettatori, il concerto improvvisato di Chico ("Non riesco a pensare alla fine", dice lui. "Strano, io non riesco a pensare ad altro", commenta Groucho) e soprattutto l'esilarante dettatura della lettera agli avvocati, che potrebbe aver ispirato quella di "Totò, Peppino e la malafemmina".

16 ottobre 2007

Stardust (Matthew Vaughn, 2007)

Stardust (id.)
di Matthew Vaughn – GB/USA 2007
con Charlie Cox, Claire Danes
***1/2

Visto al cinema Plinius, con Hiromi, Ada, Maddalena e Giuseppe.

Tratto da un racconto di Neil Gaiman illustrato da Charles Vess, "Stardust" è una bellissima fiaba fantasy e romantica che recupera tutto il senso dell'avventura e del fantastico dei migliori esempi del genere senza lasciarsi prendere la mano dagli effetti speciali o dai virtuosismi di stile e senza sentire la necessità di rivolgersi esclusivamente a un pubblico infantile. È anche il secondo film di Vaughn (marito di Claudia Schiffer e produttore dei film di Guy Ritchie) dopo il già interessante "The pusher" con Daniel Craig: decisamente un regista da tenere d'occhio. La trama vede il giovane Tristan promettere alla bella e altera Victoria di donarle una stella che ha visto cadere dal cielo. Per recuperarla, si introduce così nel reame fatato di Stormhold, separato dall'Inghilterra da un "semplice" muro, solo per scoprire che la stella è in realtà una splendida (e splendente) ragazza, di cui ovviamente non tarderà a innamorarsi. Sulle tracce della stella c'è anche una perfida strega (Michelle Pfeiffer) che intende divorarne il cuore per rivitalizzare il proprio corpo e i propri poteri, mentre la sua storia si intreccia anche con quella dei sette principi del regno, impegnati a farsi fuori a vicenda e a mettere le mani su un gioiello il cui possessore può rivendicare il trono. Ottimo il cast, con brevi apparizioni di nomi celebri (Alfred Molina è il padre del protagonista, Peter O'Toole è il re morente, Rupert Everett è il principe Secundus, Ian McKellen è la voce narrante nella versione originale). Su tutti spicca il fenomenale Robert De Niro nella parte di capitan Shakespeare, pirata acchiappafulmini a bordo di una nave volante che nasconde il proprio animo effemminato dietro un aspetto minaccioso. Rispetto al libro di Gaiman (che non ho letto, ma solo sfogliato) ci sono parecchie modifiche volte a spettacolarizzare la vicenda, come il combattimento finale, ma anche il personaggio stesso di De Niro è stato sviluppato apposta per la pellicola. In ogni caso il film non perde mai in intensità, grazie anche ai numerosi momenti divertenti e comici di cui è costellato, e preferisce dar libero sfogo alla fantasia e all'immaginazione con un pizzico di irriverenza anziché impantanarsi su valori morali o pedagogici.

14 ottobre 2007

Angel – La vita, il romanzo (F. Ozon, 2007)

Angel – La vita, il romanzo (Angel)
di François Ozon – Francia/GB 2007
con Romola Garai, Michael Fassbender
***

Visto al cinema Apollo.

Angel, giovane e umile figlia di un droghiere nell'Inghilterra dickensiana, ha la passione della scrittura e sogna una vita ricca, avventurosa e romantica come quella che descrive nei suoi romanzi, rifiutando testardamente tutto quanto non è adeguato alle sue fantasie (e così abbellisce continuamente la realtà che la circonda, afferma di essere la figlia di un aristocratico, descrive la propria casa come un palazzo o la propria madre come una concertista). Quando le sue opere conquistano improvvisamente il pubblico, grazie all'aiuto di un bonario editore (il bravo Sam Neill, mentre sua moglie è Charlotte Rampling, habitué del regista), l'improvvisa ricchezza le consente di rendere reali quelle che fino ad allora erano state soltanto immaginazioni: vestiti sfarzosi, una villa fiabesca, persino il matrimonio con l'uomo dei suoi sogni, un pittore scostante e pessimista che – al contrario di lei – vede nella vita solo una grigia e smorta bruttezza. Ma la prima guerra mondiale incombe, per quanto Angel faccia di tutto per tenerla fuori dalla sua casa... Come quasi sempre nei film di Ozon, la vita non è altro che un'elaborata messinscena. E questo, il suo primo lavoro in lingua inglese, lo mostra esplicitamente più di altri: dalle sequenze della passeggiata a Londra o in quelle del viaggio di nozze, dove i monumenti sono proiettati su un fondale evidentemente fasullo, alla teatralità dei momenti clou della vita di Angel, come l'appassionato bacio sotto la pioggia e l'arcobaleno, e persino alla scena della sua morte, così simile a quella della sua eroina nell'adattamento teatrale del romanzo. "Voi comunicate con voi stessa, non con i lettori", le dice a un certo punto la fedele segretaria (interpretata dalla Lucy Russell già vista ne "La nobildonna e il duca" di Rohmer, il cui personaggio introduce un possibile sottotesto lesbico, non insolito per un film di Ozon). Ma se ad Angel non interessa cio che è reale ma solo ciò che è bello (e questo la rende impopolare durante la guerra, quando il suo rifiuto dello sforzo bellico la spinge verso un pacifismo mal tollerato dai suoi lettori), anche quella del suo uomo è una fuga dalla realtà, per quanto assai più tragica. Nel complesso il film è uno spettacolare feuilletton che può ricordare per certi versi "Via col vento" e che si conclude con Angel che, prima di morire, si domanda "La mia vita è stata reale?". E anche la segretaria non può che domandarsi con noi se quella cui abbiamo assistito sia stata "la vita che ha vissuto, o la vita che ha sognato"?

13 ottobre 2007

Il buio nell'anima (N. Jordan, 2007)

Il buio nell'anima (The brave one)
di Neil Jordan – USA 2007
con Jodie Foster, Terrence Howard
*1/2

Visto al cinema Apollo.

Sono andato a vedere questo film perché mi era stato consigliato da Martin, e anche perché da anni ormai attendo che Neil Jordan torni a realizzare una pellicola del livello del suo capolavoro, "La moglie del soldato". Anche stavolta, però, le attese sono state deluse. Il film infatti è un thriller assolutamente convenzionale, nulla di più che un'ennesima variante al femminile de "Il giustiziere della notte", con una morale giustizialista e una sceneggiatura piena di coincidenze e di snodi improbabili. La Forster, in un ruolo forte e mascolino, è la conduttrice di un programma radiofonico che gira per la città di New York con un registratore per catturare suoni e voci, un personaggio che inizialmente può ricordare quello di "Lisbon story" di Wenders. Dopo essere rimasta vittima di una violenta aggressione nella quale il suo fidanzato perde la vita, comincia a trasformarsi: acquista illegalmente una pistola e quando si trova ad assistere a due reati violenti non esita a uccidere i criminali. Diventa così una sorta di "angelo della vendetta" (come nel film di Ferrara), un vigilante sul quale anche la polizia comincia a indagare. Il film non è privo di tensione e di impatto emotivo, grazie anche alla violenza e alla durezza di certe scene (su tutte, l'aggressione iniziale), ma la trama non esita a tirare in mezzo banali elementi da tv movie come bambini da proteggere, amori interrazziali e così via, e quasi tutti i passaggi fondamentali della vicenda sono implausibili, poco realistici o costruiti a tavolino.

12 ottobre 2007

Ero uno sposo di guerra (H. Hawks, 1949)

Ero uno sposo di guerra (I was a male war bride)
di Howard Hawks – USA 1949
con Cary Grant, Ann Sheridan
**1/2

Visto in DVD, con Martin.

Nella Germania del dopoguerra, fra bisticci e litigate di ogni tipo, un capitano dell'esercito francese (Grant) e un tenente dell'esercito americano (la Sheridan) scoprono di essere innamorati e decidono di sposarsi. Il problema sorge quando intendono trasferirsi negli Stati Uniti: per ottenere il permesso di soggiorno, il marito è costretto a far ricorso alla legge che regola l'immigrazione dei coniugi dei militari all'estero, la norma sulle cosiddette "spose di guerra", che però nessuno prevedeva di dover applicare a un uomo. Dopo una prima parte basata sul conflitto fra i sessi (tema abituale per il regista), la seconda metà del film gioca invece sul ribaltamento dei ruoli, con Grant che giunge a doversi travestire da donna pur di averla vinta sulla burocrazia e sull'ottusità delle forze armate. Divertente ma un po' datato, non è uno degli Hawks migliori anche se qualche risata, soprattutto nel finale, la strappa.

10 ottobre 2007

Il club di Groucho


Quando ho dato vita a questo blog, un anno e mezzo fa, avevo l'intenzione di scriverci non soltanto di cinema ma anche di altri argomenti: libri, fumetti, scienza, umorismo. Invece "Tomobiki Märchenland" si è subito trasformato in uno spazio monotematico, un contenitore delle opinioni e dei giudizi sui tanti film che vedo, e ormai mi piace che resti così. Per questo motivo ho deciso di aprire un nuovo blog, più generalista, magari da aggiornare meno frequentemente ma con un ventaglio di argomenti più libero. Per mantenere un riferimento cinematografico ho scelto di chiamarlo "Il club di Groucho", ed è online da oggi. Visitatelo!

Alba fatale (William A. Wellman, 1943)

Alba fatale (The Ox-bow incident)
di William A. Wellman – USA 1943
con Henry Fonda, Dana Andrews
***1/2

Visto in DVD, con Martin, in originale con sottotitoli inglesi.

Un vero capolavoro, cupo e non conciliante, che non conoscevo e che anche per questo si è rivelato una graditissima sorpresa. La trama è semplicissima: gli abitanti di una cittadina di frontiera, già sotto tensione per i ripetuti furti di bestiame, organizzano una posse per catturare e giustiziare tre stranieri accusati di aver ucciso un allevatore. Nonostante le proteste dei pochi che vorrebbero concedere loro un regolare processo, i tre vengono impiccati sul posto, solo per scoprire dopo pochi istanti che erano innocenti. Non ricordo di aver visto affrontare i temi della vendetta, della giustizia sommaria e del linciaggio in maniera così diretta e efficace come in questo "piccolo" film (dura soltanto 73 minuti), crudo, intenso e perfetto nella sua sintesi. Il mito della giustizia degli uomini ne esce a pezzi, e persino l'eroe si rivela impotente: il protagonista "buono", Henry Fonda, non può infatti far nulla per salvare Dana Andrews e compagni né si impegna particolarmente per evitare quella che è evidentemente un'ingiustizia, forse perché anche lui ha qualcosa da nascondere. Duro e realistico, oscuro e claustrofobico (fu girato tutto in interni, anche perché la Fox – che non amava il progetto – ridusse il budget al minimo), ricco di personaggi tutti ottimamente caratterizzati sia quando la loro parte nella vicenda è minima (si pensi alla ragazza un tempo amata da Fonda e a suo marito) sia quando è importante (l'ufficiale sudista e il figlio "mollaccione", il misterioso messicano interpretato da Anthony Quinn, il predicatore di colore), il film dista anni luce dall'ingenuità dei western di quegli anni e dai temi avventurosi ed eroici cui il genere aveva abituato. Fosse stato realizzato negli anni '70, quando il western aveva già preso la sua piega crepuscolare, non ci sarebbe da stupirsi: ma per una pellicola del 1943 l'impatto è davvero notevole. Memorabile, fra le altre, la scena finale in cui Fonda legge la lettera d'addio scritta da uno dei tre impiccati, con l'inquadratura che ne "impalla" lo sguardo con il cappello del suo compagno.

9 ottobre 2007

Il vendicatore di Jess il bandito (F. Lang, 1940)

Il vendicatore di Jess il bandito (The return of Frank James)
di Fritz Lang – USA 1940
con Henry Fonda, Gene Tierney
**

Rivisto in VHS.

Alla notizia dell'uccisione a tradimento di suo fratello Jesse da parte del "codardo" Bob Ford, il bandito Frank James abbandona la fattoria dove si era rifugiato sotto falso nome e riprende le armi per andare a caccia dei responsabili, non prima di aver compiuto l'ennesima rapina ai danni della compagnia ferroviaria. Sequel del popolare "Jess il bandito" di Henry King, uscito l'anno prima, il quarto film americano di Lang è anche il suo primo film a colori. Ma il western non sembra un genere nelle sue corde (anche se devo ancora vedere il suo secondo tentativo, "Rancho Notorious") e il film appare di routine, con poca atmosfera. La pellicola mantiene i toni, le ambientazioni, il tema musicale e gran parte degli attori e dei caratteristi del prototipo: fra i nuovi personaggi ci sono un giovane compagno di Frank e l'ingenua ma ostinata giornalista interpretata dalla deliziosa Gene Tierney, alla sua prima apparizione sullo schermo. Interessante, comunque, la descrizione morale del protagonista, ritratto come un fuorilegge "onesto" che lotta per la giustizia e si difende dagli intrighi delle malvagie ferrovie: inizialmente Frank ha fiducia nella legge federale, e solo quando il governatore concede la grazia ai fratelli Ford decide di prendere la vendetta nelle sue mani. Fra le scene più interessanti c'è lo spettacolo teatrale inscenato da Bob e Charlie Ford, mentre la lunga sequenza del processo finale a Frank va troppo spesso sopra le righe e piega verso la commedia.

8 ottobre 2007

Jess il bandito (H. King, 1939)

Jess il bandito (Jesse James)
di Henry King – USA 1939
con Tyrone Power, Henry Fonda
**1/2

Visto in DVD, con Hiromi.

Dopo aver visto di recente il mediocre film di Dominik con Brad Pitt, ho voluto guardarmi la classicissima pellicola che per prima, recuperando un personaggio già entrato a far parte del folklore e della cultura popolare del vecchio west, diede origine al mito cinematografico del personaggio. Costretti a mettersi contro la legge per reagire ai soprusi della compagnia ferroviaria che espropriava gli agricoltori delle loro terre, i fratelli Frank e Jesse James diventano due dei banditi più temuti degli Stati Uniti. Combattuto continuamente fra il desiderio di vendetta, l'amore per l'esistenza da fuorilegge e il sogno di una tranquilla vita familiare, Jesse viene infine ucciso a tradimento da Bob Ford, uno degli uomini della sua stessa banda. Pur non essendo un capolavoro, il film è solido e avvincente grazie alle buone interpretazioni (c'è anche Randolph Scott nei panni di uno sceriffo, mentre il "codardo" Bob Ford è interpretato da John Carradine) e all'equilibrio fra scene d'azione e quadretti di vita familiare. Non mancano alcune macchiette comiche, mentre è notevole l'uso del technicolor, specialmente nell'assalto notturno al treno. La morte di un cavallo durante le riprese (presumo nella scena in cui Jesse e Frank si lanciano dalla rupe nel fiume) portò l'American Humane Association a decidere di monitorare da allora in poi l'utilizzo degli animali durante la realizzazione dei film: da qui nacque la celebre frase "Nessun animale è stato maltrattato durante le riprese di questo film". Il buon successo di pubblico portò alla realizzazione di un seguito, l'anno successivo: "Il vendicatore di Jess il bandito", diretto da Fritz Lang (!) e incentrato sulle gesta di Frank James (Henry Fonda).

6 ottobre 2007

Election (Johnnie To, 2005)

Election (Hak se wui)
di Johnnie To – Hong Kong 2005
con Simon Yam, Tony Leung Ka-fai
**

Visto in DVD.

Una delle più antiche e potenti triadi di Hong Kong è in fermento per l'imminente elezione del nuovo presidente, che avviene ogni due anni: ma quando gli anziani dell'organizzazione scelgono di eleggere il più pacato Lok (Simon Yam), l'irruento Big D (Tony Leung Ka-fai) scatena una sanguinosa faida, con la polizia come terzo incomodo. Come spesso capita, Johnnie To non riesce a convincermi appieno nonostante le indubbie doti registiche e il consueto uso di una fotografia che gioca su luci e ombre. Il finale, con l'inaspettata resa dei conti fra i due rivali, è la cosa più bella di una pellicola che per il resto manca di compattezza e non avvince, anche perché nell'inutile parte centrale sembra dimenticarsi dei due protagonisti e si perde in un rivolo di personaggi che si passano di mano in mano il bastone di legno con la testa di drago che rappresenta lo scettro del comando della triade. Nonostante l'interesse per i rituali della mafia cinese visti dall'interno, resta una certa sensazione di improvvisazione con molti personaggi (i poliziotti, il giovane interpretato da Louis Koo) abbandonati a metà strada. Solo nel finale il focus della storia si sposta finalmente sui due contendenti, ma cominciare a caratterizzarli dopo un'ora di film è un po' poco.

3 ottobre 2007

Flags of our fathers (C. Eastwood, 2006)

Flags of our fathers (id.)
di Clint Eastwood – USA 2006
con Ryan Phillippe, Jesse Bradford
**1/2

Visto in DVD, con Albertino e Ghirmawi.

Mi ero perso al cinema il primo film del dittico di Eastwood sulla battaglia di Iwo Jima (avevo visto soltanto il secondo, lo splendido "Lettere da Iwo Jima", che legge l'episodio dal punto di vista dei giapponesi), e dunque l'ho recuperato solo adesso in DVD. Più che i temi classici della guerra, il film affronta quelli della propaganda e della percezione dell'eroismo, mettendo in dubbi i valori patriottici in favore di quelli dell'amicizia e del rapporto fra commilitoni. Al centro della pellicola c'è la celebre fotografia di Joe Rosenthal che immortalava sei soldati nell'atto di innalzare la bandiera americana sull'isola giapponese: tre di loro morirono in battaglia poco dopo, mentre i restanti tre (due marines, uno dei quali indiano, e un infermiere della marina) vennero fatti rientrare negli Stati Uniti per intraprendere un tour di apparizioni pubbliche a sostegno della campagna di raccolta fondi per proseguire lo sforzo bellico. La fotografia divenne infatti istantaneamente un simbolo dell'eroismo militare americano e impressionò profondamente l'opinione pubblica, aumentando la fiducia e il coinvolgimento nella guerra. In realtà, gran parte delle convinzioni riguardo alla foto erano errate: non era stata issata al termine della cruenta battaglia, per esempio, ma quasi al suo inizio. E non era nemmeno la prima bandiera a essere issata, ma la seconda. Eastwood lo racconta con una struttura scomposta, che alterna scene e ricordi della battaglia con momenti del tour propagandistico negli Stati Uniti, il tutto narrato retrospettivamente dal figlio di uno dei protagonisti che, ai giorni nostri, scrive un libro sull'argomento (ed è proprio da questo libro che il film è tratto). Meno intenso e struggente del film gemello (col quale ha in comune la disumanizzazione della battaglia: i nemici non si vedono praticamente mai), "Flags" è comunque interessante nell'affontare temi solitamente poco usuali per un film di guerra e per l'accuratezza nel descrivere la nascita di un'icona come la storica fotografia di Rosenthal.

2 ottobre 2007

Le cronache di Riddick (D. Twohy, 2004)

Le cronache di Riddick (The cronichles of Riddick)
di David Twohy – USA 2004
con Vin Diesel, Colm Feore
**1/2

Visto in DVD, con Hiromi.

Il bandito interstellare Riddick, sopravvissuto alle prove più estreme, se la deve vedere con i Necromonger, una razza aliena di fanatici religiosi che conquistano e distruggono altre civiltà al grido di "convertiti o perisci". Sequel di "Pitch black", è stato messo in cantiere in seguito al successo e alla popolarità del personaggio interpretato da Vin Diesel, che qui diventa il protagonista assoluto di una vicenda sempre ricca d'azione ma meno horror e più space opera (a dirla tutta, meno fantascientifica e più fantasy). In ogni caso, anche se mi è piaciuto meno del primo, il film è divertente nella sua tamarraggine e nella sua confusione e si lascia apprezzare anche per le belle scenografie. Come giustamente fattomi notare, il finale rivela molte somiglianze con la saga di Conan il Barbaro, con un personaggio al di fuori della legge che si ritrova a capo di un regno/impero. Interessanti i costumi dei nemici e anche l'uso particolare degli effetti speciali, molto bello il pianeta-prigione caratterizzato da un'esagerata escursione termica, con l'arrivo dell'alba che brucia immediatamente ogni cosa per l'eccessivo calore. Ma non tratterrò il fiato nell'attesa di un (improbabile) seguito.