29 marzo 2007

Still life (Jia Zhangke, 2006)

Still life (Sanxia haoren)
di Jia Zhangke – Cina 2006
con Zhao Tao, Han Sanming
**1/2

Visto al cinema Anteo, con Hiromi.

Ecco il Leone d'oro a sorpresa dell'ultimo festival di Venezia: un film che mette in scena la Cina dei grandi cambiamenti, delle immense dighe che sommergono lentamente città e villaggi, costringendo le popolazioni a spostarsi in massa in nuovi centri abitati, mentre orde di operai smantellano e demoliscono fabbriche ed edifici per salvare il salvabile; ponti immensi e moderni che attraversano vallate desolate, e che si illuminano di notte su precisa richiesta dei costruttori orgogliosi di mostrare agli amici la propria opera; colleghi di lavoro che mostrano la propria regione d'origine immortalata sul retro delle banconote come se fossero cartoline, in attesa che le grandi opere distruggano o alterino definitivamente il paesaggio e che di esso non ne rimanga che una "natura morta" (still life, appunto); giovani che si atteggiano al Chow Yun Fat di "A better tomorrow" con una ventina d'anni di ritardo (ma qui siamo ben lontani da Hong Kong, forse le mode viaggiano più lente); e soprattutto la frammentazione dei nuclei familiari, con mariti e mogli che vivono separati per anni senza aver notizie gli uni delle altre. La spersonalizzazione degli individui è evidente nelle due vicende principali della pellicola, che non si incrociano mai fra loro: quella di uno straniero che giunge a Fengjie (dove è in costruzione la diga delle Tre Gole) in cerca della moglie, che non vede da sedici anni, e della figlia mai incontrata; e quella di una ragazza che invece intende trovare il marito per chiedergli il divorzio. Le loro storie, delicate e mai urlate, non mi hanno coinvolto particolarmente, anche perché non spiccano su quelle degli altri individui e si perdono in un quadro d'insieme che più che sui singoli soggetti punta a una descrizione globale di un paesaggio più vasto. Ed è una caratteristica comune agli altri film di Jia Zhangke che avevo già visto: alla fine quella che rimane è l'immagine di un mondo immenso e sconosciuto, nel quale il regista riesce a condurre lo spettatore e fargli "vivere" la sua realtà, fredda e apocalittica, con uno stile essenziale e naturalistico sia pur condito da un paio di bizzarri inserti "alieni" (ma il palazzo che prende il volo è forse una metafora di un peso che si solleva dall'anima).

28 marzo 2007

Orfeo negro (M. Camus, 1959)

Orfeo negro (Orfeu negro)
di Marcel Camus – Francia/Brasile 1959
con Breno Mello, Marpessa Dawn
***

Rivisto in DVD con Marisa, Luigi, Roberto e Anna.

Il mito greco di Orfeo rivisitato e ambientato in Brasile, durante il carnevale di Rio, in un atmosfera di caos, allegria, danze e samba che sembra rispecchiare perfettamente le antiche feste orgiastiche dionisiache. E ogni personaggio, fin dal nome, ha il proprio corrispettivo nel mito orfico. Orfeo suona la chitarra anziché la lira e si esibisce come "dio del sole" (in quanto figlio di Apollo) durante la sfilata del carnevale: i bambini delle favelas ritengono infatti che sia proprio lui, con le sue canzoni, a far sorgere il sole ogni mattina; Euridice è una ragazza appena giunta in città e tormentata da un misterioso individuo, vestito da scheletro, che la minaccia costantemente di morte; la discesa agli inferi si traduce nella visita a una medium che comunica con gli spiriti dei defunti attraverso le pratiche voodoo; e non manca nemmeno una baccante che, come nelle Georgiche di Virgilio, si vendica di Orfeo dopo la scomparsa di Euridice. Caldo e colorato, violento e dolce, triste e allegro, il film vinse la Palma d'Oro al festival di Cannes e l'Oscar per il miglior film straniero. Ed è condito da celebri canzoni in stile bossa nova (su tutte "Manhã De Carnaval" e "A felicidade").

Questa è la mia vita (J.L. Godard, 1962)

Questa è la mia vita (Vivre sa vie)
di Jean-Luc Godard – Francia 1962
con Anna Karina, Saddy Rebbot
**1/2

Visto in DVD.

Il film racconta in dodici quadri, introdotti da titoli multipli come quelli dei libri di una volta, alcuni episodi della vita di Nanà (una bellissima Anna Karina con un'acconciatura alla Louise Brooks): commessa in un negozio di dischi e perennemente in ristrettezze economiche, abbandona il suo uomo e sogna di fare del teatro o del cinema. A un certo punto comincia, un po' per caso e un po' per necessità, a prostituirsi. Trova un protettore, poi forse un amante, e infine va incontro al proprio destino in un finale improvviso e tragico. Sotto i riflettori di Godard c'è la "vita", in tutti i sensi: da quella di Nanà, vissuta con innocenza e curiosità, a quella delle prostitute (l'argomento era stato suggerito al regista dalla lettura di un'inchiesta giornalistica), non a caso dette "ragazze di vita". La vita è oggetto di discussioni filosofiche, come quella intavolata da Nanà con uno sconosciuto in un bar. Ed è anche arte e bellezza, come suggeriscono il brano di Edgar Allan Poe che viene letto da un personaggio o le immagini de "La passione di Giovanna d'Arco" di Dreyer che Nanà va a vedere al cinema. La regia è notevole e molto curata, sperimentale ma al tempo stessa coerente e consapevole, con piani sequenza, insoliti movimenti di macchina, prolungati primissimi piani del volto della protagonista e personaggi ripresi da dietro la nuca. Godard stesso si stupì del fatto che il film sembrasse "il più composto fra tutti quelli che ho fatto, mentre non lo era per niente. Ho preso il materiale grezzo, dei rulli perfettamente avvolti che ho sistemato l'uno accanto all'altro, e questo materiale si è organizzato" da solo.

27 marzo 2007

Anche i nani hanno cominciato da piccoli (W. Herzog, 1970)

Anche i nani hanno cominciato da piccoli
(Auch Zwerge haben klein angefangen)
di Werner Herzog – Germania 1970
con Helmut Döring, Pepi Hermine
***

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

In una strana colonia penale per nani, ai margini del deserto, scoppia una rivolta. Approfittando della temporanea assenza delle autorità, i prigionieri distruggono ogni cosa nell'istituto e nel suo cortile, in un crescendo di anarchia infantile e rivoluzionaria: oltre a bruciare e demolire case ed oggetti, si accaniscono con scherzi di ogni tipo anche sugli animali e persino sui più deboli del loro stesso gruppo. Girato in un livido bianco e nero, esclusivamente con attori nani, è un film bizzarro, grottesco e disturbante che si pone a metà strada fra "Freaks" di Tod Browning e "Zero in condotta" di Jean Vigo. Herzog descrive un mondo folle e crudele nel quale persino le galline si attaccano e si spiumano a vicenda. Il comportamento ribelle e distruttivo dei personaggi è da intendersi in chiave di critica sociale, se non addirittura politica: il che ne fa, al di là della trama assai esile, un film originale e interessante, che va ben oltre i suoi limiti (forse avrebbe potuto durare meno di 90 minuti). Imperdibile, naturalmente, per gli estimatori di Herzog, che qui dimostra già di saper fondere in maniera unica e personale una storia e un ambiente, la finzione e il documentario. Il film è stato girato a Lanzarote, nelle isole Canarie, durante il viaggio in Africa compiuto dal regista tedesco – allora solo ventisettenne – a cavallo del 1969, quando realizzò anche "Fata Morgana".

Center stage (Stanley Kwan, 1992)

Center stage (Yuen Ling-Yuk, aka The Actress)
di Stanley Kwan – Hong Kong 1992
con Maggie Cheung, Carina Lau, Tony Leung Ka-fai
*1/2

Visto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Ambientato a Shanghai, racconta gli ultimi anni della vita di Ruan Ling Yu, celebre star cinese del cinema muto, morta suicida a soli 25 anni dopo esser rimasta vittima di una campagna stampa che la accusava di essere l'amante di un uomo sposato. Maggie interpreta la protagonista con la consueta grazia e bravura, ma anche il suo impegno non riesce a sollevare il film – che pure in patria ha vinto svariati premi – da un freddo manierismo. Il regista sembra più interessato alla ricostruzione storica (non mancano accenni alle proteste contro l'occupazione giapponese della Manciuria) che a coinvolgere il pubblico, e il ritratto dell'attrice che ne esce, aspetti protofemministi compresi, è noioso e non del tutto convincente. Curiosi, nella prima mezz'ora di film, alcuni "godardismi" come l'inserimento di brevi interviste a Maggie e ad altri membri del cast che parlano, "fuori dal personaggio", del loro ruolo nella pellicola o di cosa pensano di Ruan; oppure inserti con le testimonianze di persone che avevano davvero conosciuto l'attrice.

25 marzo 2007

300 (Zack Snyder, 2007)

300 (id.)
di Zack Snyder – USA 2007
con Gerard Butler, Leda Headey
**

Visto al cinema Colosseo, con Monica e Albertino.

Tratto da uno dei fumetti meno belli di Frank Miller, il film racconta in maniera barocca, romanzata e irrealistica la battaglia delle Termopili, dove un manipolo di trecento soldati spartani guidati dal re Leonida riuscì a tener testa all'esercito persiano di Serse e a guadagnare il tempo necessario ai greci per riorganizzarsi e resistere all'invasione. La tecnica con cui gran parte delle scene è stata girata è praticamente la stessa di "Sin City" (ma già il fatto di arrivare secondo toglie valore al film): le vignette del fumetto sono ricostruite con estrema precisione e i personaggi disegnati sulla carta sembrano quasi prendere vita in una sorta di animazione "live", con tanto di ralenti e brevi fermi immagine nei momenti in cui le pose sono più eroiche e spettacolari. Ma se nel film di Rodriguez il bianco e nero, l'ambientazione noir/pulp e la storia riuscivano a fornire una solida ossatura alla pellicola, qui la spettacolarità visiva risulta monocorde e fine a sé stessa, e tutto si risolve nel mettere in mostra una continua carneficina, un bagno di sangue nel quale i soldati spartani, come in un videogioco, affrontano una dopo l'altra ondate di nemici sempre più assurdi e improbabili: fra questi, ninja, orchi, rinoceronti e olifanti. Il tutto è inoltre condito con dialoghi retorici su patriottismo, libertà e coraggio. Peccato: se fosse stato meno serio e più cialtrone, il film – visto l'indubbio impatto visivo – sarebbe risultato più piacevole e divertente. Così invece, fra tanta esaltazione guerresca e la completa disumanizzazione del nemico, soltanto nel finale (quando "Faramir" incita i suoi all'attacco) la pellicola riesce a emozionare un po'. Orrendo il doppiaggio italiano, in particolare la voce del narratore e quella della regina di Sparta, un'insopportabile Anita Caprioli il cui accento ricorda quello della Bellucci. Ogni volta che dal passo delle Termopili l'azione si spostava a Sparta, facendo tornare in scena la regina (che nel fumetto non aveva tutto questo spazio), mi cadevano le braccia. Direi che non ci sono più dubbi: la grande scuola del doppiaggio italiano è definitivamente tramontata, e le nuove leve sono men che mediocri.

24 marzo 2007

Lisbon story (W. Wenders, 1994)

Lisbon story (id.)
di Wim Wenders – Germania/Portogallo 1994
con Rüdiger Vogler, Patrick Bauchau
***

Visto in DVD, con Martin.

Philip Winter, rumorista e tecnico del suono, si reca in auto dalla Germania fino a Lisbona su invito di un suo amico regista che sta realizzando un film sulla città portoghese. Ma l'amico sembra essere sparito nel nulla. Bivaccando in casa sua, il protagonista ha l'occasione di conoscere meglio la città, di percorrerne le salite e le discese, di catturarne i suoni con l'aiuto di un gruppo di ragazzini, di leggere Pessoa e di incontrare il gruppo musicale dei Madredeus, della cui cantante si innamora. Solo nel finale l'amico regista, che ha scelto di vivere in clandestinità per poter riprendere immagini che nessuno – nemmeno l'operatore – ha mai visto o vedrà, si rifarà vivo. Il film, colorato, leggero e ironico, ricorda le pellicole del Wenders del primo periodo: la struttura, anzi, è quasi parallela a quella de "Lo stato delle cose", seppur meno cinica e tragica e più votata alla conoscenza del mondo. Winter non è un turista (anzi, si scaglia apertamente contro le immagini e i filmini "da turista" che i bambini riprendono) ma un uomo curioso che ama scoprire lentamente le cose e crede nelle capacità del cinema di descrivere il reale e raccontare una storia. Ma questa storia deve essere vista e fruita da qualcuno, non può rimanere chiusa in un magazzino virtuale senza alcuno spettatore, come invece sembra desiderare l'amico regista, a tal punto ossessionato dal video digitale da aver completamente "spersonalizzato" la propria arte e, in un certo senso, anche la propria vita. Splendidi i titoli di testa, con il viaggio di Winter verso Lisbona sottolineato, più che dalle immagini dei paesi europei che attraversa, dai rumori e dalle trasmissioni radio nelle diverse lingue. Un film che andrebbe visto a fianco di altre pellicole totalmente incentrate sulla forza del sonoro: da "Blow out" di De Palma a "Lo specchio" di Jafar Panahi.

Appunti di viaggio su moda e città (W. Wenders, 1989)

Appunti di viaggio su moda e città (Notebook on cities and clothes)
di Wim Wenders – Germania/Francia 1989
con Johji Yamamoto, Wim Wenders
*

Visto in DVD con Martin, in originale con sottotitoli.

Un documentario sul mondo della moda commissionato a Wenders dal centro Pompidou. L'intera pellicola si concentra quasi esclusivamente sullo stilista giapponese Yohji Yamamoto, interrogandolo sul suo processo creativo e seguendolo durante il suo lavoro di preparazione della nuova collezione e dietro le quinte di una sfilata. Difficilmente un argomento potrebbe interessarmi di meno, e infatti ho quasi dormito durante la mezz'ora finale del film. Di Wenders, a parte le ossessioni per le immagini elettroniche e alcune riflessioni sul rapporto fra creazioni originali e copie, c'è ben poco.

22 marzo 2007

Un anno

È iniziata la primavera, e questo blog ne approfitta per festeggiare un anno di vita! L'ho cominciato infatti proprio il 22 marzo di un anno fa: era nato (e lo è tuttora) come un piccolo diario nel quale tener conto dei molti film che vedo, registrando le impressioni "a caldo" e i miei giudizi da spettatore... non di rado, infatti, mi rendevo conto che pellicole viste anni prima non avevano quasi lasciato traccia nella mia memoria, sebbene ricordassi magari se mi fossero piaciute oppure no. Dover scrivere qualche riga su ciascuna di esse mi aiuta decisamente a ricordarle meglio. In più mi divertirà, tra qualche anno, rileggere cosa pensavo di determinati film o autori, visto che non è raro il caso di un radicale cambiamento di opinione su certi film a distanza di tempo. Mi dispiace anzi non aver cominciato prima!

Ne approfitto, comunque, per ribadire il concetto (forse ovvio) che i miei voti e i miei giudizi si riferiscono sempre e solamente al mio rapporto da spettatore con il film: per questo mi riservo il diritto di dare a un film demenziale o di serie B un voto più alto e lusinghiero di quello dato a un capolavoro di un grande maestro, se la visione del primo mi ha procurato più piacere.

E ora un po' di cifre. In questi dodici mesi ho parlato di ben 283 film. Di questi, 102 li ho visti al cinema (69 soltanto nelle due rassegne di Cannes e Venezia) e 181 in casa. 236 li ho visti per la prima volta, mentre in 47 casi si trattava (come minimo) di una seconda visione, magari ad anni di distanza dalla prima. Il regista più rappresentato è stato Wim Wenders, con ben 10 titoli, grazie alla "rassegna" che sto facendo insieme a Martin. Segue con 5 titoli Akira Kurosawa, tutti dei suoi esordi. E poi, con 4 ciascuno, Lubitsch, Malle e Mankiewicz.

Nota: come avrete notato, per festeggiare il compleanno ho aggiornato il template passando a quello del Nuovo Blogger (ho dovuto trovare un nuovo codice per i commenti recenti, quello precedente non funzionava più) e sto inaugurando le etichette nei post.

21 marzo 2007

Ali G (Mark Mylod, 2002)

Ali G (Ali G Indahouse)
di Mark Mylod - GB 2002
con Sacha Baron Cohen, Michael Gambon
**

Visto in DVD, con Albertino.

Prima di Borat (che comunque fa una comparsata anche qui), Sacha Baron Cohen era noto soprattutto per il personaggio di Ali G, rapper e "gangsta" bianco del westside di Slaines, cittadina alla periferia di Londra. In questo film, prodotto in seguito al successo delle sue apparizioni televisive nel corso delle quali intervistava personaggi famosi (soprattutto politici) ignari della sua natura di comico, Ali G viene eletto parlamentare britannico e diventa stretto collaboratore del primo ministro, rafforzandone la popolarità con una serie di proposte di legge quantomeno "bizzarre" (come consentire l'ingresso agli immigrati soltanto se si tratta di ragazze giovani e carine). L'umorismo è abbastanza stupido e demenziale, ma alcune gag strappano più di un sorriso. Meno geniale di "Borat", comunque non completamente da buttar via.

20 marzo 2007

Green snake (Tsui Hark, 1993)

Green snake (Ching se)
di Tsui Hark – Hong Kong 1993
con Maggie Cheung, Joey Wong
***

Visto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Un film bizzarro e affascinante, visivamente molto bello, tratto da un'antica leggenda cinese. La smeraldina Maggie Cheung (splendida!) e la sorella maggiore Joey Wong sono due spiriti-serpente, malvage per natura eppure dotate di un animo gentile, che assumono forma umana per integrarsi fra gli uomini: la seconda arriva addirittura a sposare un essere umano (nascondendogli la sua reale identità), mentre la prima – meno abile nel controllare la propria metamorfosi – va in cerca di avventure. Devono però vedersela con un monaco dai grandi poteri spirituali che dà la caccia a tutte le creature sovrannaturali. Meno pretenzioso di altri wuxia di Tsui Hark, presenta per una volta una trama lineare e facile da seguire ed è graziato, oltre che dalla bellezza delle due protagoniste, da una fotografia caleidoscopicamente colorata e da paesaggi straniti e surreali. Belle anche le musiche. Piuttosto buona la qualità del dvd Mei Ah.

19 marzo 2007

Casablanca (Michael Curtiz, 1942)

Casablanca (id.)
di Michael Curtiz – USA 1942
con Humphrey Bogart, Ingrid Bergman
****

Rivisto in DVD con Martin, in originale con sottotitoli.

"Everybody comes to Rick's."
"Play it, Sam."
"Of all the gin joints, in all the towns, in all the world, she had to walk into mine."
"Here's looking at you, kid."
"Kiss me. Kiss me as if it were the last time."
"Was that cannon fire or is it my heart pounding?"
"We'll always have Paris."
"It doesn't take much to see that the problems of three little people don't amount to a hill of beans in this crazy world."
"Round up the usual suspects."
"Louis, I think this is the beginning of a beautiful friendship."

Durante la seconda guerra mondiale, la città di Casablanca nel Marocco francese è diventata un fondamentale punto di passaggio per tutti coloro – rifugiati, patrioti o semplici disperati – che cercano di fuggire dall’Europa. Da Casablanca, grazie ad apposite e ambitissime “lettere di transito” firmate dalle autorità, è possibile infatti raggiungere Lisbona e da lì imbarcarsi per l’America. È quello che cercano di fare il partigiano Victor Laszlo (Paul Henreid), eroe della resistenza ricercato dai nazisti, e sua moglie Ilsa Lund (Ingrid Bergman), approfittando del fatto che due di queste preziose lettere, trafugate dal subdolo malvivente Ugarte (Peter Lorre), sono finite nelle mani dell’americano Rick Blaine (Humphrey Bogart), gestore del Rick's Café ed ex amante di Ilsa. Cinico e disilluso, anche se con un passato di combattente repubblicano in Spagna e contrabbandiere d’armi in Africa, Rick si mantiene apparentemente distaccato e neutrale rispetto al conflitto, tollerando la presenza nel proprio locale di membri di tutte le parti in guerra. Ma il ritorno di Ilsa, dal quale era stato abbandonato senza spiegazioni e che ancora ama, lo spingerà a prendere una decisione. Ci sono film che non fanno semplicemente parte della storia del cinema: sono la storia del cinema. Certo, Curtiz non è Hawks, Welles o Wilder: ma poco importa. A volte un film diventa un capolavoro non per merito di un singolo individuo (regista, attore o sceneggiatore che sia), ma perché tutte le parti che lo compongono contribuiscono insieme al risultato finale, convergendo miracolosamente nella stessa direzione e producendo un fenomeno simile all'“interferenza costruttiva” nella fisica delle onde. Ed è qui che nasce il mito. Nella scheda sul suo dizionario del cinema, il Mereghetti cita Umberto Eco: "Quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza, si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno ridere, cento commuovono". Per nessun film, forse, questo è vero come per "Casablanca", una struggente celebrazione del sacrificio.

Tratta da un testo teatrale di Murray Burnett e Joan Alison che non era ancora mai andato in scena, e fortemente voluta dal produttore Hal B. Wallis, la pellicola ebbe un successo oltre ogni aspettativa. Vinse i premi Oscar per il miglior film, la regia e la sceneggiatura (oltre ad altre cinque nomination) e colpì l'immaginazione del pubblico non solo al momento della sua uscita ma anche, e soprattutto, negli anni a venire. Contribuì a rendere mitici Bogart e la Bergman, cui il regista non lesina primi piani e la sceneggiatura (dei fratelli gemelli Julius e Philip Epstein, con Howard Koch) frasi memorabili come quelle citate in apertura, ma sono indimenticabili tutti i personaggi, anche quelli minori: dall’ambiguo capitano francese Renault (Claude Rains), che cerca di restare a galla in un mondo corrotto in cui pure sguazza con nonchalance, al maggiore tedesco Strasser (Conrad Veidt), principale "cattivo" del film; dal pianista Sam (Dooley Wilson), che canta la canzone di Herman Hupfeld "As time goes by" (la frase "Suonala ancora, Sam", resa celebre anche da Woody Allen, non è mai pronunciata esattamente in questi termini nella pellicola) al fidato cameriere Carl (S.Z. Sakall), fino a Ferrari (Sydney Greenstreet), proprietario del locale rivale Blue Parrot. Ancora oggi citatissimo a destra e a manca (due esempi su tanti: Emir Kusturica in "Gatto nero gatto bianco" e Steven Soderbergh in "Intrigo a Berlino"), oltre che oggetto di omaggi parodie (dai fratelli Marx al già menzionato Allen, senza dimenticare una storia di Topolino firmata da Giorgio Cavazzano), va assolutamente gustato in lingua originale. Soltanto quando l'ho visto per la prima volta in inglese, infatti, mi sono reso conto che si trattava davvero di un capolavoro assoluto e non del classico film sopravvalutato dalla critica per meriti pregressi. Nell'edizione italiana, oltre ai dialoghi cambiati qua e là, manca completamente il personaggio del capitano Tonelli, forse ritenuto offensivo ai tempi dell’uscita nel nostro paese (nel 1946).

18 marzo 2007

Il libro della giungla (W. Reithermann, 1967)

Il libro della giungla (The jungle book)
di Wolfgang Reithermann – USA 1967
animazione tradizionale
***

Rivisto in DVD con la mia nipotina Elena.

Walt Disney morì proprio durante la lavorazione di questo film, che dunque funge da ideale spartiacque fra la produzione disneyana "classica" e quella "moderna" e segna l'inizio di una crisi creativa per la casa di Topolino che sarebbe perdurata per una ventina d'anni. La pellicola è tratta dai racconti di Rudyard Kipling ambientati nella giungla indiana con protagonista Mowgli, giovane tarzanide allevato dai lupi e amico degli animali selvaggi (in particolare di Bagheera, la pantera che funge anche da voce narrante, e di Baloo, l'orso). La prima vorrebbe che il "cucciolo d'uomo" facesse ritorno tra i propri simili, anche per sfuggire alla minaccia della tigre Shere Khan; il secondo, invece, vorrebbe che restasse nella giungla, dove per vivere "bastan poche briciole". Il film è costituito da una serie di scenette poco collegate fra loro, che introducono di volta un diverso gruppo di animali: gli elefanti, le scimmie, gli avvoltoi, eccetera, il tutto mentre i due mentori di Mowgli gli insegnano due diversi approcci alla vita: responsabile quello di Bagheera, disinvolto e "alla giornata" quello di Baloo. Caratterizzata dall'animazione "povera" tipica degli anni '60-'70, la pellicola ha il suo vero punto di forza nella colonna sonora, con canzoni di impronta jazzistica fra le quali spiccano quella di Re Luigi ("I wanna be like you") nonché quella, celeberrima, di Baloo ("The bare necessities"), di cui esiste anche una versione interpretata nientemeno che da Louis Armstrong: in lingua originale sono molto più gradevoli che in italiano. Disneyanamente parlando, il film ispirerà per certi versi alcuni pellicole successive come "Tarzan" (ovviamente) ma anche "Il re leone" (la filosofia di Timon e Pumbaa ricorda quella di Baloo).

16 marzo 2007

Rapina a mano armata (S. Kubrick, 1956)

Rapina a mano armata (The killing)
di Stanley Kubrick – USA 1956
con Sterling Hayden, Elisha Cook Jr.
***

Rivisto in DVD, con Giovanni.

Heist movie tesissimo, scandito da un narratore metodico che descrive le azioni dei personaggi sottolineando le ore e i minuti con una precisione pari a quella del piano organizzato in ogni dettaglio dai protagonisti per rapinare l'incasso delle scommesse di una giornata all'ippodromo. Ma come in ogni noir che si rispetti, il destino incombe: basterà qualche granello di polvere in un ingranaggio ritenuto perfetto per mandare a monte il colpo e condannare, in maniera diversa, tutti i membri della banda, che si tratti di criminali recidivi o di impiegati onestissimi (fino ad allora). Le motivazioni di alcuni di essi vengono descritte con brevissime scene (il barista che si occupa della moglie malata, il poliziotto alle prese con un debito da pagare), altri hanno decisamente più spazio nella trama (il cassiere umiliato dalla moglie che lo tradisce), altri ancora "recitano" semplicemente il ruolo che la sceneggiatura impone loro (la ragazza del protagonista, l'amico-padre putativo). La fotografia è scura e ombrosa, carica di tensione e ricca di primi piani, attenta a mostrare solo il necessario al momento giusto. E ben prima di Tarantino in "Jackie Brown" e con risultati di più alto livello, Kubrick si diverte a giocare con il flusso temporale accompagnando lo spettatore al momento decisivo, la partenza della corsa all'ippodromo, per ben quattro (o più?) volte, per poi tornare indietro nel tempo e ricominciare da capo l'avvicinamento. Brillante e indimenticabile il finale, tragico e beffardo.

15 marzo 2007

Il bacio dell'assassino (S. Kubrick, 1955)

Il bacio dell'assassino (Killer's kiss)
di Stanley Kubrick – USA 1955
con Jamie Smith, Frank Silvera
**1/2

Rivisto in DVD.

Il secondo lungometraggio di Kubrick (dopo "Paura e desiderio", ritirato dalla distribuzione e di cui lo stesso regista ha fatto distruggere quasi tutte le copie), da lui anche scritto, prodotto, montato e fotografato, è un noir basato su una trama piuttosto semplice che racconta fondamentalmente dell'incontro tra due personaggi soli in una New York ostile (basti pensare alle strade deserte e desolate dell'ultima parte). Lui è un pugile fallito ma dal cuore d'oro, lei (Irene Kane) la sua vicina di casa: quando il padrone del dancing dove la ragazza lavora la aggredisce, il pugile – che ha assistito a tutto dalla finestra di fronte – interviene, e tra i due nasce l'amore. Ma il "cattivo" non demorde e cercherà di impedire che la coppia lasci la città per rifarsi una vita altrove. Strutturato come un lungo flashback, il film introduce lentamente i personaggi in una ventina di minuti forse memori di "Day of the fight", il primo corto di Kubrick, anch'esso incentrato sulla giornata di un pugile. Qua e là affiorano squarci che mostrano già l'abilità del regista: mi riferisco al breve sogno notturno con lo scorrere delle strade della città, deserte e viste "in negativo"; al lungo racconto della ragazza su sua sorella Iris, tutto in voice over sulle immagini della ballerina che danza nell'oscurità; alla scena con Silvera che scaglia il bicchiere contro la macchina da presa, rompendone anche il vetro; e ovviamente alla fuga finale sui tetti e soprattutto al combattimento nella fabbrica di manichini. Belle le musiche di Gerald Fried.

14 marzo 2007

I cinque segreti del deserto (B. Wilder, 1943)

I cinque segreti del deserto (Five graves to Cairo)
di Billy Wilder – USA 1943
con Franchot Tone, Anne Baxter
***

Visto in DVD.

Intrigante mystery di ambientazione bellica, ricco di tensione e di colpi di scena e incentrato sulla figura del leggendario feldmaresciallo Rommel, "la volpe del deserto", interpretato dal carismatico Erich von Stroheim. Per certi versi è anche un instant movie, visto che gli eventi descritti avevano avuto luogo pochi mesi prima della realizzazione del film. Pur essendo un "nemico", Rommel comunque non ne esce male: viene descritto come un abilissimo stratega che mette in atto un piano programmato con lungimiranza addirittura molti anni prima dell'inizio della guerra.
La trama vede come protagonista un soldato inglese, unico sopravvissuto allo scontro di Tobruk contro i tedeschi, che trova rifugio in un'isolata locanda in mezzo al deserto egiziano, dove sono rimasti solo il proprietario e una cameriera francese. Ma lo stato maggiore tedesco sta per arrivare, e il soldato decide di assumere l'identità del cameriere che era appena scomparso sotto i bombardamenti dell'edificio, ignorando che si trattava in realtà proprio di una spia tedesca. Ne approfitterà per cercare di scoprire il segreto che consente a Rommel di spostarsi fra le dune a gran velocità, senza preoccuparsi troppo di approvvigionamenti e rifornimenti. Un'ottima sceneggiatura (con battute quali "Abbiamo scacciato gli inglesi come mosche, ora scacceremo le mosche come inglesi") e un'ambientazione circoscritta che mi ha ricordato per certi versi il wuxiapian "Dragon Inn". Da antologia la suspense di alcune sequenze, come il combattimento fra il protagonista e il tenente tedesco nell'oscurità, sotto i bombardamenti inglesi, con la torcia elettrica che cade di mano all'uno e viene raccolta poi dall'altro solo quando lo scontro è terminato. Come in "Casablanca", nell'edizione italiana era stato evidentemente eliminato il personaggio del militare italiano: tutte le scene in cui compare il simpatico e bonaccione generale Sebastiano di Milano, infatti, nel DVD sono state ripristinate in lingua originale con i sottotitoli.

13 marzo 2007

Frutto proibito (B. Wilder, 1942)

Frutto proibito (The major and the minor)
di Billy Wilder – USA 1942
con Ginger Rogers, Ray Milland
**1/2

Visto in DVD.

Non avendo abbastanza denaro per comprare il biglietto del treno che da New York la deve riportare al paese, una donna si traveste da dodicenne per pagare la tariffa ridotta. In carrozza però incontra e si innamora di un giovane ufficiale militare che, dopo una serie di equivoci, la condurrà con sé nel campo di addestramento dove lavora, ospitandola per un paio di giorni: le saranno sufficienti per mandare a monte l'imminente matrimonio del maggiore, che a sua volte si scopre infatuato di quella che crede essere una minorenne? Al suo primo film americano (e primo vero film della sua carriera di regista) Wilder, co-autore anche della sceneggiatura, realizza una commedia su misura per l'estro di Ginger Rogers. Lo spunto su cui si basa la vicenda è decisamente implausibile (è davvero assurdo che una donna adulta come la Rogers possa passare per dodicenne), e forse oggi sarebbe difficile realizzare un film simile senza suscitare polemiche o scendere nello scabroso: l'attrazione che il maggiore prova per la "bambina" è solo accennata, ma il bacio finale liberatorio è ben poco equivocabile. La sceneggiatura si mantiene comunque sempre su toni divertenti e leggeri, anche quando mostra la protagonista costretta a districarsi fra centinaia di giovani cadetti goffamente intenzionati a sedurla. Simpatica anche la sorella minore della "rivale", una giovane aspirante scienziata che diventa la miglior alleata della Rogers e che naturalmente è l'unica, vista la propria età, a smascherare il suo travestimento a prima vista. Nel finale la Rogers, dopo essere "ringiovanita" per tutto il film, giunge a "invecchiarsi" vestendo anche i panni della propria madre!

11 marzo 2007

Intrigo a Berlino (S. Soderbergh, 2006)

Intrigo a Berlino (The good german)
di Steven Soderbergh – USA 2006
con George Clooney, Cate Blanchett
**

Visto al cinema President, con Martin.

Soderbergh non mi piace, ma devo riconoscergli di essere un regista che non ha paura di sperimentare e di uscire dagli schemi dell'industria mainstream, anche se sempre a scapito di un certo intellettualismo. Questo "Intrigo a Berlino" è un tentativo, evidente sin dalla locandina e dalla scelta della fotografia in b/n, di realizzare qualcosa nello stile dei thriller politici e noir degli anni '40. Ambientato nella capitale tedesca semidistrutta alla fine della guerra, divisa dagli alleati nelle rispettive zone d'occupazione, dove si attende l'esito della conferenza di Potsdam e si avviano le prime indagini sui crimini di guerra, è un intricato giallo che soffre purtroppo per una sceneggiatura decisamente imperfetta, molto confusa e persino un po' presuntuosa (citare nel finale la scena di "Casablanca" sulla pista dell'aeroporto è decisamente troppo!). La vicenda, che vede protagonista un reporter militare alle prese con il misterioso omicidio del suo autista e i segreti del passato della donna che ama, risulta inutilmente complicata. Il tema di fondo è però enunciato con chiarezza (già dal titolo originale) e riguarda l'eventuale innocenza o colpevolezza di un intero popolo: esistevano anche "tedeschi buoni" oppure l'intera popolazione era nazista e corresponsabile delle malefatte di Hitler? Ma alla fine il film non prende una vera posizione, e i vari personaggi sostengono l'una o l'altra tesi a seconda del proprio tornaconto personale. Dopo "Good night e good luck", Clooney interpreta ancora un giornalista in un film in bianco e nero. Brutto il doppiaggio italiano, in particolare la voce della Blanchett.

8 marzo 2007

Borat (Larry Charles, 2006)

Borat – Studio culturale sull'America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan (Borat: Cultural Learnings of America for Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan)
di Larry Charles – USA 2006
con Sacha Baron Cohen, Ken Davitian
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Albertino.

Il personaggio di Borat Sagdiyev, giornalista della tv kazaka, è stato ideato da Baron Cohen nella sua trasmissione televisiva "Da Ali G Show" e giunge ora al cinema con un film solo parzialmente di finzione. La trama principale (che vede Borat incaricato di realizzare a New York un documentario sulla vita negli Stati Uniti: ma dopo aver assistito a una puntata di "Baywatch" in televisione, il reporter decide di attraversare il continente per recarsi in California e sposare Pamela Anderson) non è infatti altro che la cornice per una serie di scene nelle quali il comico interagisce con persone ignare della sua vera natura e convinte di parlare davvero con un kazako ignorante, antisemita e maschilista. Politicamente scorretto verso tutto e tutti, la sua comicità consiste principalmente nel mostrare le imbarazzate reazioni degli intervistati e dei testimoni delle sue "imprese", il cui comportamento genuino svela le ipocrisie della nostra società nei confronti di noi stessi, delle minoranze e degli stranieri. Se gli stessi comportamenti o le affermazioni offensive di Borat provenissero da un occidentale, infatti, la reazione sarebbe probabilmente diversa; trattandosi invece del cittadino di un paese assolutamente sconosciuto (cosa sappiamo del Kazakistan?), subentrano tentativi di comprensione e di giustificazione che fanno passare per valide posizioni decisamente insostenibili. In questo senso il film non è molto diverso da un documentario che avevo visto l'anno scorso, "The Yes Men", nel quale alcuni studenti si spacciavano per incaricati del WTO e partecipavano a congressi ufficiali sostenendo le tesi più assurde, ricevendo non proteste ma applausi. In altri momenti, invece, Borat non mira a suscitare reazioni accondiscendenti ma a smascherare semplicemente il vero modo di pensare della gente, magari convinta che quello che sta dicendo non uscirà mai dai palinsesti della televisione kazaka. In alcuni casi (per esempio nella sequenza che precede il rodeo o nell'incontro con gli studenti sul camper) si può assistere a un volto dell'America (per fortuna non l'unico) bigotto e razzista. Di tutte le scene, però, quella che più mi ha impressionato è stato l'impatto iniziale con la città di New York: a Borat che saluta ogni persona che incontra per strada tendendo la mano, la maggior parte dei passanti reagisce terrorizzata, fuggendo via in preda al panico pur di evitare persino il minimo contatto fisico con uno sconosciuto. Ora, non so voi, ma se qualcuno mi si avvicina con la mano tesa mentre cammino per strada il mio primo impulso è proprio quello di stringergli la mano, non certo scappare via gridando come un ossesso... In certe situazioni, comunque, il comico si è dovuto trattenere: mi riferisco all'incontro con i neri nel ghetto e soprattutto al congresso dei Pentecostali, dove si "limita" a fare l'ingenuo e lo stupido, ma non si spinge certo a offendere: se può infatti permettersi volgarità e comportamenti oltraggiosi in contesti tutto sommato "innocui", come la scuola di bon ton, di certo avrebbe rischiato la vita a fare la stessa cosa in ambienti caratterizzati da una forte dose di fanatismo religioso o sociale. Già ha rischiato abbastanza storpiando l'inno nazionale al rodeo o tentando di rapire Pamela Anderson di fronte alle sue guardie del corpo! Buono l'apporto della "spalla", il grasso e brutto Ken Davitian, che raggiunge vette quasi poetiche con il suo travestimento da Oliver Hardy ("un uomo vestito da Hitler"). Infine, alcune considerazioni: francamente mi aspettavo di ridere di più. Probabilmente la "colpa" è del doppiaggio in italiano. Il problema non è tanto nella voce di Borat, quanto in quella delle persone comuni. Mettere una voce impostata – quella cioè di un attore o di un doppiatore – in bocca a individui presi dalla strada ne "falsifica" la naturalezza. Se aggiungiamo la consapevolezza della presenza della videocamera (giustificata, perché veniva detto che si girava per la tv kazaka), si ottiene la sensazione di una "messinscena" che attenua di molto la vis comica. E se gli sketch non fossero spontanei ma preparati, allora il film non sarebbe diverso da una delle molte farse del cinema demenziale. Dovrò dunque rivederlo in lingua originale, in DVD, per dare un giudizio definitivo.

7 marzo 2007

Continuavano a chiamarlo Trinità (E.B. Clucher, 1971)

Continuavano a chiamarlo Trinità
di E.B. Clucher [Enzo Barboni] – Italia 1971
con Terence Hill, Bud Spencer
***

Rivisto in DVD, con Hiromi.

L'enorme e inaspettato successo del primo "Trinità" convinse rapidamente i produttori, il regista e gli attori a girarne il seguito. Qui la personalità della coppia viene definita ancora di più, i due character funzionano meglio e diventano definitivamente quelli che saranno protagonisti nei decenni successivi di numerose altre pellicole, non più western ma d'avventura, ambientate in ogni parte del mondo, in fondo tutte variazioni sullo stesso tema. La prima metà del film è la più brillante: dopo la gag sui "rapinatori rapinati" nel deserto, che attraverso il tegame di fagioli fornisce da subito un punto di contatto con il film precedente, vengono introdotti i genitori della coppia e si pongono le basi per la trama successiva: i due partono in cerca di avventure, con Bambino che dovrà insegnare a Trinità il mestiere di fuorilegge. Seguono sequenze una migliore dell'altra, fra le quali vanno ricordate la partita a poker (di cui ci si ricorderà in un film successivo, "Pari e dispari") e quella della cena al ristorante (che addirittura anticipa l'analoga sequenza di John Belushi e Dan Aykroyd in "The Blues Brothers"). La seconda metà, quella in cui la trama prende il sopravvento con la vicenda dei frati costretti a "riciclare" il denaro sporco dei biechi affaristi di città, la trovo invece meno divertente. E anche la scazzottata finale non è delle migliori. Nel complesso, comunque, si tratta di un film importante per la coppia, nonché di un ottimo punto di partenza per abbandonare l'ambientazione western e veleggiare verso nuovi orizzonti. I risultati al botteghino furono fenomenali, e Bud e Terence divennero i beniamini di un pubblico tanto vasto quanto eterogeneo, in Italia come all'estero.

Nota: è curioso come il tema religioso fosse così presente in queste prime pellicole, dal nome del protagonista e dal titolo dei film alle trame vere e proprie, che vedono i nostri eroi alle prese con una comunità di mormoni (nel primo "Trinità") e con una missione cattolica (nel sequel). La cosa è buffa se si pensa che i due attori, a fine carriera, hanno chiuso il cerchio finendo con l'interpretare davvero personaggi legati alla religione, stavolta però senza sbeffeggiarli: Don Camillo e Don Matteo per Terence Hill, Padre Speranza per Bud Spencer.

6 marzo 2007

Lo chiamavano Trinità (E.B. Clucher, 1970)

Lo chiamavano Trinità...
di E.B. Clucher [Enzo Barboni] – Italia 1970
con Terence Hill, Bud Spencer
***1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

"Salve, fratelli!"
"Salve... Glielo hai detto tu che siamo fratelli?"
"È il signore che vi manda!"
"No, passavamo di qua per caso."

Dopo i primi tre film insieme ("Dio perdona... io no!", "I quattro dell'Ave Maria", "La collina degli stivali"), che ne avevano già messo in luce l'alchimia di coppia, Terence Hill e Bud Spencer raggiungono il grande successo con questa pellicola che incredibilmente, secondo i suoi realizzatori, non era stata inizialmente concepita come un western comico, anche se il lato giocoso e scanzonato era presente intenzionalmente (e questa fu una grande intuizione di Barboni). L'ironia, però, non avrebbero dovuto essere molto diversa da quella dei tipici spaghetti western del periodo, e questo è forse dimostrato dal fatto che nella prima parte del film i due protagonisti continuano a usare le pistole come se si trattasse di un western normale, passando soltanto in seguito agli "sganassoni" che sarebbero diventati il loro marchio di fabbrica. Interessante, al riguardo, osservare lo zelo con il quale gli sceneggiatori cercano da un certo punto in poi di fare in modo che gli avversari si disarmino spontaneamente. Molte gag vennero poi letteralmente inventate e improvvisate in fase di lavorazione, e non erano presenti nello script originale, che fra l'altro Barboni faticò a far accettare ai produttori ("Troppo pochi morti", dicevano).
Divertente, memorabile e ormai leggendario (ho perso il conto di quante volte l'avrò visto), il film è introdotto dal magnifico brano musicale di Franco Micalizzi. E già dopo pochi minuti compare subito anche un altro tema che diverrà una costante nei film della coppia Spencer/Hill: il cibo. Ogni volta che rivedo la scena di Trinità che ripulisce il tegame di fagioli, mi viene fame! Segue poi la costruzione della "rivalità" fra i due, alleati contro i cattivi ma comunque sempre in conflitto fra loro, con Hill nei panni del furbo e manipolatore (Trinità), e Spencer in quella del "sucker" (Bambino), serio e pragmatico ma alla fine trascinato nelle sue avventure dal fratello minore che se lo rigira come vuole.
Il film, in ogni caso, è ben costruito, con una regia solida, una sceneggiatura attenta ai dettagli (si veda per esempio l'introduzione dei vari personaggi, anche di quelli minori come i due complici di Bud Spencer) e un buon ritmo. Ma si sa: in quei tempi il cinema italiano di genere non aveva nulla da invidiare a nessuno!

5 marzo 2007

American graffiti (G. Lucas, 1973)

American graffiti (id.)
di George Lucas – USA 1973
con Ron Howard, Richard Dreyfuss
***

Rivisto in DVD, con Martin.

Il secondo lungometraggio di Lucas è qualcosa di davvero particolare nella sua filmografia. Niente fantascienza, anzi tutto il contrario: un nostalgico sguardo al passato, un vero e proprio revival dei primissimi anni '60, della musica e della vita in una cittadina californiana di provincia dove i ragazzi si divertono scarrozzando la propria automobile per le strade da un drive-in all'altro, un film che ha dato vita a un trend sfociato l'anno seguente nella serie televisiva "Happy Days", con protagonista proprio Ron Howard. La pellicola mostra l'ultima notte delle vacanze estive che un gruppo di amici appena diplomati trascorre in compagnia prima della sospirata (o temuta) partenza per il college. Se Steve è esaltato dall'avventura che lo attende, anche a costo di dover lasciare dietro di sé la propria ragazza, Curt invece è pieno di dubbi e medita di non partire più. Cambierà idea soltanto la mattina successiva, dopo aver vissuto alcune memorabili esperienze che lo aiuteranno a traghettarsi nell'età adulta. Il "duro" John, che ha la fama di essere il pilota più veloce della città, deve invece vedersela con uno straniero (un giovanissimo Harrison Ford con cappello da cowboy) intenzionato a sfidarlo, ma anche con un'appiccicosa ragazzina che si è intrufolata nella sua macchina e cui è costretto a fare da babysitter fino all'alba. Terry, infine, è lo "sfigato" del gruppo: riesce a rimorchiare una spettacolare bionda ma finisce immancabilmente col mettersi nei guai, e a lui naturalmente sono destinati i momenti più comici del film. Oltre che dalla musica (dai Beach Boys ai Platters, da Elvis e Chuck Berry), la pellicola è punteggiata dalla voce dello speaker radiofonico Lupo Solitario (Wolfman Jack nella versione originale), misterioso deejay sul cui programma sono sintonizzati praticamente tutti e che fra uno sberleffo e l'altro interviene anche direttamente nella storia.

4 marzo 2007

La moglie dell'aviatore (E. Rohmer, 1981)

La moglie dell'aviatore (La femme de l'aviateur)
di Éric Rohmer - Francia 1981
con Philippe Marlaud, Marie Rivière
**

Visto in DVD, con Hiromi.

Primo film della serie "Commedie e proverbi", la nuova sequenza di sei pellicole con la quale Éric Rohmer – dopo l'esperienza dei lungometraggi storici in costume "La marchesa Von..." e "Perceval" – torna allo stile minimalista e naturalista di sentimenti e gelosie che aveva caratterizzato i suoi "Racconti morali". La storia, incentrata sul proverbio fittizio "Non è possibile non pensare a niente" (inventato dallo stesso Rohmer parafrasando una frase di Alfred de Musset), parla di François, un giovane che dopo aver visto uscire dalla casa della sua ragazza il suo ex amante, decide di pedinarlo per tutto il giorno in compagnia di una simpatica quindicenne incontrata per caso. La sera avrà un colloquio chiarificatore con la sua ragazza in una scena lunga e verbosa ma stranamente intrigante. Un film strano e delicato, a tratti incerto e a tratti solare, con personaggi ben descritti, vivi e "reali", ma che forse lascia un po' il tempo che trova.

3 marzo 2007

Pocahontas (M. Gabriel, E. Goldberg, 1995)

Pocahontas (id.)
di Mike Gabriel, Eric Goldberg – USA 1995
animazione tradizionale
*1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Con il primo lungometraggio animato ispirato agli indiani d'America (la storia della principessa pellerossa, realmente esistita, che si innamora del colono inglese John Smith), la Disney ha dato vita a uno dei suoi film meno belli e meno ispirati. Devo però ammettere che me lo ricordavo anche più brutto: quando l'avevo visto al cinema non mi era piaciuto proprio per niente, anche perché era uscito subito dopo "Il re leone" e dunque nel bel mezzo di un "rinascimento disneyano" ricco di pellicole di buon livello qualitativo. Rivisto oggi, in un periodo invece decisamente infelice per la casa di Burbank (e meno male che c'è la Pixar a tener alto – indirettamente – il nome del papà di Topolino), tutto sommato non fa una pessima figura e ne ho apprezzato almeno il tratto. Il character design di alcuni personaggi, come Pocahontas stessa, non è male (da notare come sia "seriosa" e adulta, per nulla caricaturale, nemmeno al livello "carino" delle precedenti principesse): brutto, invece, quello degli inglesi, di stampo più televisivo. Comunque si tratta di un film decisamente scialbo, privo di fascino e di magia, con una trama piatta e caratterizzazioni che non fanno mai presa. Persino la musica, spesso punto di forza dei film Disney, è sottotono: le canzoni sono onnipresenti ma assolutamente dimenticabili, e si termina la visione senza nemmeno un motivo che rimanga in mente. L'unica sequenza che si lascia ricordare con un certo piacere è quella dei preparativi dei soldati (e degli indiani) per la guerra. Peccato però che sfoci poi in un finale completamente anticlimatico, e che dunque si riveli un fuoco di paglia.