30 aprile 2006

Il fantasma dell'Opera (A. Lubin, 1943)

Il fantasma dell'Opera (Phantom of the Opera)
di Arthur Lubin – USA 1943
con Claude Rains, Susanna Foster
**1/2

Visto in DVD, con Martin.

Pur con alcuni difetti, questa versione hollywoodiana del romanzo di Gaston Leroux non mi è dispiaciuta, soprattutto se la si confronta con quella recente e pessima di Joel Schumacher. Il problema principale è che manca la tensione e il coinvolgimento che ci si aspetterebbe da un horror o da un thriller. A tratti sembra quasi una commedia, visto lo spazio eccessivo che hanno i battibecchi fra i due giovani innamorati di Christine (il poliziotto e il baritono). E sicuramente il technicolor non era la scelta giusta per un film di mostri della Universal. Bravo Claude Rains nella prima mezz'ora, tutta dedicata alle origini del "fantasma", che crea un personaggio realmente ossessionato dalla musica e dal teatro. La musica, appunto, ha una forte importanza nella trama (paradossalmente più che nel recente musical, dove invece l'ambientazione in un teatro dell'opera sembra casuale), sia per le lunghe scene di canto sul palcoscenico (ma ho l'impressione che non si trattasse di vere opere, bensì di brani e musiche realizzate per l'occasione dall'autore della colonna sonora, Edward Ward), sia per la psicologia dei fantasma. Nel film compare anche Franz Liszt, interpretato da un certo Fritz Leiber (ma non è lo scrittore di fantascienza: si tratta di un attore shakesperiano). Le grotte sotterranee con il lago, che nel film di Schumacher sembravano l'attrazione dei pirati di Disneyland, qui ricordano a tratti le miniere di Moria: ci mancava solo che i personaggi incontrassero Gandalf o il Balrog!

Day of the fight (Stanley Kubrick, 1951)

Il giorno del combattimento (Day of the fight)
di Stanley Kubrick – USA 1951
con Walter Cartier, Vincent Cartier
**1/2

Visto su YouTube, in lingua originale.

Ispirato a un servizio fotografico da lui stesso realizzato nel 1949 per la rivista "Look", questo cortometraggio – che segna l'esordio cinematografico di Stanley Kubrick – segue il pugile Walter Cartier nella giornata che precede il suo incontro sul ring contro il peso medio Bobby James. Oltre all'atleta e al suo fratello gemello Vincent, che gli fa da manager, protagonisti sono gli scorci e gli edifici del Greenwich Village e del New Jersey, ritratti con realismo documentario e competenza fotografica. Assistiamo così al risveglio di Walter, alla messa domenicale, alla colazione, alla visita medica, al pranzo e all'attesa che precede l'incontro, in compagnia del fratello o dell'amato cane, fino al match di cui ci vengono mostrati alcuni minuti (con alcune trovate di regia che già mostrano il talento dell'autore, come le riprese dal basso, effettuate dallo stesso Kubrick con una cinepresa a mano). Fra i risvolti interessanti, il fatto che Walter e Vincent siano gemelli identici, il che sembra quasi sdoppiare il protagonista. La voce narrante è quella del giornalista televisivo Douglas Edwards. L'aiuto regista e cameraman era un ex compagno di scuola di Kubrick, Alexander Singer, che in seguito lavorò in televisione, mentre la musica è opera di un altro amico, Gerald Fried, alla prima esperienza come compositore di colonne sonore. Dopo che il committente originale dell'opera chiuse per fallimento, Kubrick riuscì a vendere il corto alla RKO Pictures per 4000 dollari (realizzando così un utile di 100 dollari). Per proiettarlo all'interno della propria serie "This is America", la RKO vi aggiunse quattro minuti di introduzione (portando così la durata del film da 12 a 16 minuti), nella quale lo storico Nat Fleischer illustra le origini del pugilato negli Stati Uniti.

29 aprile 2006

Transporter: extreme (L. Leterrier, 2005)

Transporter: Extreme (Transporter 2)
di Louis Leterrier – Francia/USA 2005
con Jason Statham, Alessandro Gassman, Amber Valletta
**1/2

Visto in DVD, con Albertino.

Ogni tanto non fa male un film tutta azione e niente cervello. E le "bessonate", in fondo, sono ormai quasi meglio dei film (quei pochi che fa) di Besson stesso: meno pretenziose e più divertenti. Rispetto al primo capitolo delle avventure del "trasportatore", stavolta Corey Yuen si limita a dirigere la seconda unità (e, presumo, a coreografare le ottime scene d'azione), mentre il regista di "Danny the dog" è bravo, nonostante il gusto videoclipparo, a non limitarsi a scopiazzare John Woo o altri hongkonghesi. Cambia anche l'ambientazione: non più la Francia ma gli USA, per la precisione Miami. Così uno spettatore distratto potrà anche scambiarlo per un film americano. Il punto di forza della pellicola, ancor più che nella precedente, è il protagonista: non tanto l'attore, quanto il personaggio: sempre impeccabile in giacca e cravatta nonostante esplosioni, salti, sparatorie, tuffi in mare e combattimenti uno contro venti. E anche la sua adorata automobile non mostra neanche un graffio dopo le disavventure più assurde. Statham si conferma un "professionista" imperturbabile e, se non fosse stempiato, sarebbe forse un perfetto James Bond. Alessandro Gassman è il trucido capo dei cattivi mentre la cantante Kate Nauta è la sua spalla, una bella punk bionda e spietata.

The transporter (L. Leterrier, C. Yuen, 2002)

The Transporter (id.)
di Louis Leterrier e Corey Yuen Kwai – Francia/USA 2002
con Jason Statham, Shu Qi
**1/2

Visto in DVD, qualche tempo fa.

Avendo appena visto il seguito, forse è il caso di scrivere qualche parola anche sull'originale. All'epoca mi aveva attratto soprattutto per la presenza (un po' sprecata, a dire il vero) di Shu Qi, graziosissima attrice cinese che avevo scoperto per la prima volta in "Gorgeous" con Jackie Chan e poi amato soprattutto in "Millennium Mambo" di Hou Hsiao-Hsien. In Italia è nota anche per "So close", ma in patria ha recitato in una marea di altri titoli (fra cui il romanticissimo melò "City of glass" di Mabel Cheung).
Il film, come da previsioni, è una bessonata che si lascia guardare con gusto soprattutto grazie alla simpatia dell'attore protagonista, una via di mezzo fra Bruce Willis e Jean Reno: un mercenario il cui compito è quello di trasportare merce di qualsiasi tipo senza fare mai domande. Ispirato forse al "Riding Bean" dei manga di Kenichi Sonoda (ma più probabilmente a "Driver l'imprendibile" di Walter Hill), il personaggio si vanta di seguire sempre le regole che si autoimpone sul lavoro. Naturalmente, quando le trasgredisce per la prima e unica volta si metterà nei guai. Ricco di esagerati inseguimenti in auto sullo sfondo della campagna francese (a Besson evidentemente piacciono queste cose, vedi anche "Taxxi"), lo script è forse un po' povero (il seguito è meglio, da questo punto di vista), ma tutto sommato va bene così.

28 aprile 2006

All about Lily Chou-Chou (S. Iwai, 2001)

All about Lily Chou-Chou (Riri Shushu no subete)
di Shunji Iwai – Giappone 2001
con Hayato Ichihara, Shugo Oshinari
***1/2

Visto in DVD, in originale con sottotitoli in inglese.

Di alcuni film a volte ci si innamora senza un motivo apparente. Ovviamente non parlo di quei capolavori che non si possono non amare, ma di opere misconosciute per le quali il colpo di fulmine scatta all'improvviso e magari a prescindere dai loro meriti puramente cinematografici. Si tratta di una passione intima e personale che spesso agli altri, anche agli amici più affiatati, può risultare inspiegabile e che può essere innescata da un piccolissimo dettaglio colto durante la visione: un'inquadratura ardita, uno sguardo in camera di un attore o, come in questo caso, una particolare colonna sonora.

Devo ancora vedere altri film di Iwai, ma mi sento di scommettere su questo regista: diamogli il tempo di vincere il primo premio a qualche festival e magari i suoi film verranno recuperati anche da noi, come è stato con Kitano e come sta accadendo adesso a Miike. La storia, complessa, caledoiscopica, sperimentale e sofferta, ruota attorno ai tormentati rapporti di un ragazzino con i suoi amici, i compagni di scuola, la durezza della vita e soprattutto la passione per una cantante, Lily Chou-Chou appunto, di cui è un grande fan e a proposito della quale chatta frequentemente in internet. Molte delle discussioni "virtuali" su Lily compaiono nel film senza che lo spettatore possa sapere chi sono i personaggi che si nascondono dietro i nickname, anche se qualcosa si riesce a intuire prima della rivelazione finale. Lo stile registico è strabiliante: Iwai usa tutti i metodi e tutte le tecniche disponibili (digitale, pellicola, home video, cartelli e sovrimpressioni) per comporre un vertiginoso mosaico di sensazioni. Molte storie si intrecciano, alcune leggere (le prime vacanze estive "da soli"), altre drammatiche (i riti adolescenziali di iniziazione), altre sordide (violenze, gelosie e prevaricazioni) ma sempre tratteggiate con poesia e delicatezza, attraverso personaggi tridimensionali e in continua evoluzione. Una pellicola affascinante che, come se non bastasse, è condita come dicevo da una colonna sonora fenomenale. Le canzoni di Lily Chou-Chou sono scritte da Takeshi Kobayashi e interpretate da Salyu, una cantante nipponica dalla voce impagabile e quasi esoterica: secondo i suoi fan, infatti, essa proviene dall'Etere, una sorta di mondo celestiale cui appartengono pochissimi spiriti eletti, fra i quali Mozart, John Lennon, Bjork e Shiina Ringo (!). Le mie tracce preferite del CD della colonna sonora sono "Ai no jikken", "Erotic" e "Glide". Una delle canzoni è stata usata anche da Tarantino in "Kill Bill, vol. 1", nella scena in cui Hattori Hanzo mostra le sue spade alla Sposa.

Nota: il film è stato concepito da Iwai dopo aver assistito a un concerto di Faye Wong a Hong Kong. Inizialmente aveva cominciato a scriverlo sotto forma di romanzo, poi lasciato incompiuto, e in seguito lo ha pubblicato su un sito web i cui utenti hanno contribuito allo sviluppo interattivo del progetto fino alla sua forma finale.

27 aprile 2006

"Je vous salue, Marie" (J.L. Godard, 1985)

"Je vous salue, Marie" (id.)
di Jean-Luc Godard – Francia/Svizzera 1985
con Myriem Roussel, Thierry Rode
**1/2

Visto in DVD.

Giuseppe fa il tassista a Ginevra. Maria è una giovane giocatrice di basket, figlia del gestore di una stazione di servizio. Sono fidanzati ma il loro rapporto è assolutamente casto, con lei che letteralmente non si lascia nemmeno toccare da lui. Quando Maria riceve la visita di uno sconosciuto che le annuncia che sta aspettando un bambino, la fedeltà di Giuseppe viene messa a dura prova dalla gelosia, prima che subentri l'inevitabile rassegnazione. Più che una versione moderna della storia sacra, a Godard interessa descrivere la relazione fra i due personaggi (del bambino che sta per nascere non si parla quasi mai, se non in una breve visita di Maria dal ginecologo che le chiede se lo vuole tenere) e affrontare il tema del rapporto fra anima e corpo (la macchina da presa si sofferma innumerevoli volte sul corpo di Maria e sulla sua nudità, cosa che a quanto pare fece scandalizzare parecchi benpensanti all'epoca). A suo modo affascinante, pur nella cerebralità tipica del regista, che inoltre gioca molto con la frammentazione della colonna sonora (a base di Bach e Dvorak). Interessante anche il personaggio del professore di scienze che insegna a scuola una teoria del Disegno Intelligente ante litteram. Fra le attrici c'è anche una giovane Juliette Binoche nei panni della ragazza innamorata di Giuseppe e non corrisposta. La traduzione italiana è a tratti ridicola, soprattutto per quanto riguarda i termini scientifici: i computer vengono chiamati "ordinatori"!

26 aprile 2006

Last days (Gus Van Sant, 2005)

Last days (id.)
di Gus Van Sant – USA 2005
con Michael Pitt, Lukas Haas, Asia Argento
*1/2

Visto in DVD alla Fogona.

Da Van Sant mi aspettavo di meglio ("Elephant" mi era piaciuto parecchio), invece questo film mi ha profondamente deluso. E non perché sia girato male: anzi, la regia è ottima, così come la fotografia (merito anche della splendida location, una grande villa immersa nei boschi e nella campagna che, fatte le debite proporzioni, mi ha ricordato la Fogona). Bella anche la scelta di ripetere molte scene da un punto di vista o da un'angolazione di poco diversa, cambiando solo alcuni piccoli dettagli, per comunicare allo spettatore la sensazione delle giornate che si ripetono sempre uguali. Il problema è che ho trovato estremamente noioso seguire le vicende di un personaggio così vuoto e catatonico, che non fa mai niente e non reagisce a quello che (non) succede attorno a lui. Non sapendo poi assolutamente nulla di Kurt Cobain o dei Nirvana (e non avendo il minimo interesse per l'argomento), non ho idea di quanto il film sia fedele alla storia del cantante. Ma francamente non che me ne importi poi molto.

Un corpo da reato (H. Zwart, 2001)

Un corpo da reato (One night at McCool's)
di Harald Zwart – USA 2001
con Matt Dillon, Liv Tyler, Michael Douglas
**

Visto in divx alla Fogona.

Una black comedy, (leggermente) cinica e amorale, che nella prima ora è parecchio divertente (con i tre protagonisti maschili che "si confessano" rispettivamente a un prete, a uno psicanalista e a un killer a pagamento), ma che alla resa dei conti si rivela piuttosto sconclusionata. A tratti mi è sembrata una versione meno infantile e meno stupida di "Tutti pazzi per Mary", con la splendida Liv Tyler sempre al centro della scena a far perdere la testa a tutti gli uomini che incontra. A differenza di Cameron Diaz, però, il suo personaggio non è ingenuo e inconsapevole ma mantiene sempre il controllo della situazione e sfrutta l'attrazione che esercita sugli uomini per ricavarne il massimo dei vantaggi. Peccato che il finale non concluda degnamente la storia e che molte trovate sembrino gettate lì a caso: per tutto il film ci si attende chissà quali rivelazioni o colpi di scena sulle motivazioni dei personaggi, e invece ogni cosa è sempre quella che appare. Mah. Bravi gli attori, ordinaria amministrazione tutto il resto.

25 aprile 2006

Vertigine (Otto Preminger, 1944)

Vertigine (Laura)
di Otto Preminger – USA 1944
con Dana Andrews, Gene Tierney
***1/2

Visto in DVD alla Fogona.

Illuminato dalla magnetica bellezza di Gene Tierney, il più celebre noir di Otto Preminger è un intrigante giallo ricco di colpi di scena, un meccanismo perfetto e geniale con una prima parte raccontata in flashback attraverso i resoconti dei vari testimoni interrogati dal detective Mark McPherson (Dana Andrews). Questi è un "duro" che pian piano si innamora della donna sul cui omicidio sta indagando, Laura Hunt, brillante pubblicitaria in carriera uccisa da un colpo d'arma da fuoco nel proprio appartamento, e della quale non sa nulla se non ciò che gli narrano le persone che l'hanno conosciuta in vita. Un ottimo cast (ci sono anche un ambiguo e raffinato Clifton Webb e un giovane e già sornione Vincent Price) al servizio di una storia che regge benissimo la tensione senza risultare né ingenua né stereotipata. Splendido bianco e nero, magnifici costumi e grande maestria registica di Preminger: se Hollywood è diventata grande, è stato soprattutto grazie al serbatoio di autori europei da cui si riforniva in quegli anni. La sceneggiatura (con echi, nella prima parte, di “Quarto potere”) è tratta da un romanzo di Vera Caspary. Inizialmente – visti i contrasti fra Preminger e il produttore Darryl F. Zanuck – avrebbe dovuto dirigerlo Rouben Mamoulian, che però non si trovò a proprio agio con gli attori scelti (in particolare con Webb, i cui modi effemminati destavano perplessità anche fra i produttori, ma che Preminger seppe valorizzare a dismisura). Fondamentale la colonna sonora di David Raksin, con il celebre “tema di Laura” che divenne poi una canzone di successo. Il regista riutilizzerà la Tierney ne "Il segreto di una donna" e, ancora insieme con Dana Andrews, nel poliziesco "Sui marciapiedi".

24 aprile 2006

Il tempo dei lupi (M. Haneke, 2003)

Il tempo dei lupi (Le temps du loup)
di Michael Haneke – Francia/Austria 2003
con Isabelle Huppert, Béatrice Dalle
*1/2

Visto in DVD alla Fogona.

L'ultimo film di Haneke, "Caché – Niente da nascondere", è stato forse il più bello che ho visto al cinema nella stagione 2005/06. Questo invece, il penultimo, mi ha molto deluso.
Potrei descriverlo come una versione di "Zombi" diretta da Tarkovskij e senza gli zombi! La pellicola segue le vicende di un gruppo di "sopravvissuti" a qualche tipo di catastrofe o apocalisse non meglio specificata (per tutto il film le informazioni vengono distillate con il contagocce, se non omesse del tutto). I protagonisti si ritrovano in una stazioncina ferroviaria in aperta campagna, ad attendere il possibile passaggio di un treno che li porti lontano dalla zona. Il denaro non ha più valore, gli uomini lottano o si uccidono fra loro per un nonnulla, e ogni oggetto diventa buono come merce di scambio. La storia è narrata con estremo distacco e procede con lentezza quasi straziante, ma alla fine l'unico tema affrontato è quello del crollo della struttura sociale moderna ("homo homini lupus"), un argomento poco originale già di suo ma qui trattato senza guizzi né inventiva. Ho quasi l'impressione che certe tematiche funzionino meglio come sottotesto nei B-movie o nei film di genere. Decisamente è il film di Haneke (uno dei registi europei attualmente più interessanti) che finora mi è piaciuto di meno.

23 aprile 2006

È nata una stella (G. Cukor, 1954)

È nata una stella (A star is born)
di George Cukor – USA 1954
con Judy Garland, James Mason
**

Visto in DVD alla Fogona.

L'aspirante cantante Esther Blodgett (Garland, nel suo ruolo più celebre dopo quello – da bambina – ne "Il mago di Oz") raggiunge il successo a Hollywood (con il nome di Vicki Lester) mentre l'attore che l'ha scoperta (e sposata), Norman Maine (Mason), contemporaneamente si avvia al declino. Remake dell'omonimo film di William Wellman del 1937 (ma deve moltissimo anche ad "A che prezzo Hollywood?" del 1932 dello stesso Cukor, che mi era sembrato molto più fresco e coinvolgente), è il primo film a colori (e musicale) di un regista di cui di solito apprezzo la leggerezza, la semplicità e l'ironia, i piccoli dettagli che gli bastano per descrivere ogni situazione. In questo caso, invece, Cukor è costretto a fare i conti con una produzione ai massimi livelli, e la pellicola sconta tutta la "pesantezza" delle sfarzose scenografie imposte dai soldi della Warner Bros. Il risultato mi ha lasciato freddino, anche per colpa di tutte quelle canzoni, non proprio di mio gusto, cantate da Judy Garland nei primi due terzi del film. Meglio invece il finale, che si tinge di amaro e lascia da parte l'ambiente dello spettacolo e della ricerca del successo per concentrarsi di più sul rapporto fra i due personaggi principali. Comunque troppo lungo (come se non bastasse, nel DVD sono state inserite anche alcune sequenze che erano state tagliate all'epoca e di cui non si sentiva certo la mancanza) e troppo "autocelebrativo" nel mettere in scena i meccanismi di un mondo che proprio in quegli anni cominciava il suo declino. La pellicola fu nominata a sei premi Oscar (fra cui Mason, la Garland, la scenografia e la colonna sonora) ma non ne vinse nessuno. Seguiranno altri remake nel 1976 (di Frank Preston con Barbra Streisand) e nel 2018 (in preparazione, di Bradley Cooper con Lady Gaga).

22 aprile 2006

Il giro del mondo in 80 giorni (F. Coraci, 2004)

Il giro del mondo in 80 giorni (Around the world in 80 days)
di Frank Coraci – GB 2004
con Steve Coogan, Jackie Chan
**

Visto in DVD.

L'eccentrico e distratto scienziato londinese Phileas Fogg (Steve Coogan) scommette di riuscire a compiere un giro intorno al mondo in soli 80 giorni. Ad accompagnarlo nell'impresa ci saranno il domestico Passepartout (Jackie Chan), che vuole riportare in patria una preziosa statua del Buddha da lui sottratta alla Banca d'Inghilterra, e la pittrice francese Madame La Roque (Cécile de France), conosciuta a Parigi. Li ostacoleranno invece l'ispettore Fix (Ewen Bremner), che indaga sul furto, e gli intrighi di Lord Kelvin (Jim Broadbent), il rivale di Fogg. Secondo adattamento cinematografico del romanzo di Jules Verne dopo quello classico del 1956 con David Niven, e come quello ricco di comparsate di attori celebri in piccoli ruoli (Arnold Schwarzenegger è un principe turco, Sammo Hung interpreta Wong Fei-hung (!), John Cleese è un poliziotto inglese, Owen e Luke Wilson sono i fratelli Wright, Kathy Bates è la regina Vittoria), compresi alcuni interpreti noti solo ai fan del cinema orientale (per esempio Karen Mok, accreditata come Karen Joy Morris, nei panni della cinese cattiva). Della storia originale rimangono giusto lo spunto iniziale e i nomi dei protagonisti (in alcuni casi irriconoscibili, come l'improbabile Passepartout cinese), mentre gli incontri e gli eventi durante il viaggio sono praticamente tutta farina del sacco di sceneggiatori che giocano spesso a strizzare l'occhio allo spettatore e si prendono numerose libertà (compresa una collocazione temporale alquanto “libera”, con molti anacronismi). Divertente ma estremamente infantile, è essenzialmente una pellicola avventurosa di stampo disneyano, ricca di capitomboli e inseguimenti in stile "Mamma ho perso l'aereo", e del tutto priva di descrizioni "realistiche" delle diverse culture del globo: si può vedere con piacere, ma senza entusiasmarsi più di tanto. La scena migliore è quella con Schwarzenegger, mentre le acrobazie di Jackie sono ormai all'acqua di rose rispetto ai suoi tempi d'oro: di combattimenti decenti, ovviamente, neanche a parlarne.

13 aprile 2006

Adolescenza torbida (L. Buñuel, 1951)

Adolescenza torbida (Susana)
di Luis Buñuel – Messico 1951
con Rosita Quintana, Fernando Soler
***

Visto su Fuori Orario, in originale con sottotitoli.

Fuggita dal riformatorio, la giovane Susana trova ospitalità presso una hacienda dove viene assunta come lavorante, turbandone ben presto la tranquillità. Procace e calcolatrice, la ragazza si finge ingenua e innocente e riesce a sedurre tanto il padrone quanto il suo giovane figlio, attirando anche le attenzioni del capo dei mandriani e seminando zizzania fra tutti loro.
Questa pellicola del periodo messicano di Buñuel può sembrare un film minore rispetto a capolavori come "I figli della violenza" (realizzato lo stesso anno), ma è caratterizzata dalla consueta maestria narrativa e da una bellissima fotografia in bianco e nero. E poi Don Luis è sempre bravo a trasformare una vicenda apparentemente convenzionale in un'arguta metafora ricca di spunti sociali, sessuali o religiosi. Quella di Susana, elemento di disturbo che viene a portare il caos nell'ordine costituito, è una lotta da sola contro il mondo intero, che la ragazza combatte usando le uniche armi a sua disposizione: la bellezza e la gioventù provocante. Pur essendo la "cattiva" del film, non si può non provare simpatia più per lei che per gli altri personaggi, che credono di avere il coltello dalla parte del manico e non si accorgono di essere invece manipolati. La facilità con cui riesce nel suo intento, anzi, rivela quanto fosse fasulla e ipocrita l'armonia da "Mulino Bianco" che regnava inizialmente nella famiglia. E Buñuel, lungi da voler impartire una lezione morale, mantiene sempre uno sguardo decisamente ironico, come nelle scene in cui Susana, prima di "entrare in azione", si allarga regolarmente la scollatura. E anche con un contrasto esageratamente marcato fra i momenti drammatici, scuri e tempestosi, e quelli idilliaci, pieni di sole e di uccellini che cantano. Un po' la stessa cosa che farà John Woo nel finale di "Face/Off", sottolineato sarcasticamente come fiabesco e irreale.

12 aprile 2006

Inside man (Spike Lee, 2006)

Inside Man (id.)
di Spike Lee – USA 2006
con Denzel Washington, Clive Owen, Jodie Foster
***

Visto al cinema President.

Cinque rapinatori entrano nella filiale di una banca a Manhattan e prendono dipendenti e clienti in ostaggio, facendoli vestire con tute identiche alle loro. Polizia e negoziatori vengono subito schierati in campo; anche perché nelle cassette di sicurezza del caveau è custodito qualcosa di ben più prezioso del denaro... Siamo di fronte a un heist movie, un "film di rapina", sottogenere cinematografico che vede in "Quel pomeriggio di un giorno da cani" (citato esplicitamente nei dialoghi) il suo campione riconosciuto. Avrebbe dovuto dirigerlo Ron Howard, e già questo rivela che si tratta di un film su commissione, non di un'opera "personale" come le precedenti di Spike Lee, benché l'autore riesca comunque a inserire qua e là lievi accenni alle tematiche a lui care (l'integrazione, l'intolleranza), nonché esplicite citazioni ai suoi lavori precedenti (un esempio: le pizze che la polizia porta agli ostaggi provengono dalla pizzeria di "Fa' la cosa giusta"). Il risultato è comunque eccellente: come thriller funziona molto bene, grazie anche alla sceneggiatura precisa come un orologio che mantiene tensione e suspense fino alla fine. Il regista mostra tutta la professionalità accumulata in anni di esperienza, e surclassa i tentativi visti recentemente di fare film di questo tipo (mi riferisco a titoli assai deludenti come "Ocean's Eleven", "Codice Swordfish", e via dicendo). Pur senza gli approfondimenti sociali o lo spessore psicologico che caratterizzano gli altri lavori di Lee, dunque, la pellicola riesce a tenere inchiodato lo spettatore fino all'ultimo fotogramma, anche per merito di un buon gruppo di interpreti. Peccato che molte trovate venissero svelate già nel trailer (che pure è stata la molla che mi ha spinto ad andare a vederlo al cinema!).

11 aprile 2006

Uomini alla ventura (John Ford, 1952)

Uomini alla ventura (What price glory)
di John Ford – USA 1952
con James Cagney, Don Dailey, Corinne Calvet
**1/2

Visto in DVD, con Martin.

Non è un western, ma un film di guerra, considerato fra le pellicole "minori" di Ford. Temevo fosse retorico e guerrafondaio, invece si tratta di uno studio di caratteri che mi è piaciuto parecchio per la sua alternanza fra i toni leggeri e da commedia (prevalenti in quasi tutta la prima ora di film) e i momenti drammatici degli scontri in prima linea, dove peraltro più che la demonizzazione del nemico predomina un senso di impotenza nei confronti di un destino imperscrutabile (che si manifesta anche sotto forma degli ordini improvvisi da parte del comando). Cagney e Dailey sono due ufficiali amici-rivali che si stabiliscono, con il loro battaglione, in un paesino della Francia durante la prima guerra mondiale. Mentre attendono senza troppa impazienza di entrare in azione. si punzecchiano, litigano per la stessa donna (all'inizio per evitare il matrimonio con lei, poi per il motivo contrario), e cercano di addestrare meglio che possono una compagnia di soldati giovanissimi. I personaggi sono simpatici: devo dire che stavolta l'abitudine di Ford di stemperare con leggerezza e umanità ogni situazione mi è sembrata particolarmente appropriata. Ottimo Cagney, molto gigione ma un signor attore.

10 aprile 2006

Le sue ultime mutandine (F. Capra, 1927)

Le sue ultime mutandine (Long pants)
di Frank Capra – USA 1927
con Harry Langdon, Alma Bennett
***

Visto in DVD, con Martin.

Lo stesso giorno in cui i suoi genitori gli consentono per la prima volta di uscire di casa con i pantaloni lunghi (questo il vero significato del bizzarro titolo italiano: forse sarebbe stato meglio “I suoi ultimi calzoni corti”), il giovane Harry si innamora di Bebé, una bad girl ricercata dalla polizia. Infatuato di lei, trascura la ragazza di buona famiglia che i suddetti genitori vorrebbero fargli sposare e fugge alla vigilia del matrimonio per aiutare la sua amata a evadere dal carcere dove è stata rinchiusa. Alla fine, il protagonista imparerà a conoscere meglio il mondo esterno, che vedeva in maniera troppo idealizzata, e tornerà a casa "sconfitto", disilluso ma non pentito, quasi rassegnato a malincuore alla vita borghese che lo attende. Insomma, un finale piuttosto lontano dagli "happy ending" dei film successivi di Capra (che personalmente preferisco quando è un po' più "perfido" – vedi anche la black comedy "Arsenico e vecchi merletti" – piuttosto che nei suoi film "ottimisti" più celebri). Ho trovato la pellicola molto interessante, soprattutto a livello di storia: quasi una commedia "amorale", per nulla consolatoria, che anzi lascia un po' di amaro in bocca. Ci sono scene piuttosto forti come quella in cui Harry conduce la fidanzata nel bosco con l'intenzione di ucciderla (fallendo non perché ci ripensa, ma per una serie di gag causate dalla sua goffaggine e dall'ingenuità della ragazza). È curioso come tanto in questo film quanto nel precedente “La grande sparata” (entrambi con Langdon), l'eroe si trovi invischiato in avventure con donne criminali, autoritarie, affascinanti e pericolose, che fra l'altro vengono ritratte con una certa simpatia. Non avendo ancora visto altri film con questo interprete, non so se si tratti di un cliché del suo personaggio oppure di una coincidenza. Ottima anche Alma Bennett nei panni di Bebé. Al secondo lavoro, la regia di Capra è forse un po' meno ricercata di quella del film d'esordio, ma comunque eccellente: lo dimostra il fatto che, pur essendo un film muto, i cartelli sono pochi e la narrazione, anche quando non ci sono gag comiche, funziona soprattutto a livello visivo.

La grande sparata (F. Capra, 1926)

La grande sparata (The strong man)
di Frank Capra – USA 1926
con Harry Langdon, Priscilla Bonner
**1/2

Visto in DVD, con Martin.

Si tratta del primo lungometraggio di Capra, dopo quattro anni in cui aveva lavorato nel mondo del cinema soprattutto come sceneggiatore. È una commedia in cui il regista si mette al servizio di Harry Langdon, un comico dell'ultimo periodo del muto (aveva esordito solo nel 1924), non geniale come Keaton o Chaplin ma comunque simpatico e – purtroppo per lui – destinato rapidamente all'oblio con l'avvento del sonoro.
Langdon interpreta un soldato belga che, dopo la guerra, arriva in America dove lo attende la sua "fidanzata", una ragazza con cui corrispondeva via lettera ma che non ha mai visto di persona e di cui ignora anche il recapito. La prima parte del film, la più interessante, è ambientata a New York e vede Langdon (il tipico "bravo ragazzo", mingherlino e spaurito) alle prese con una poco di buono: la donna vuole recuperare un rotolo di banconote finite per sbaglio nella sua giacca e a questo scopo tenta di sedurlo. Ci sono anche delle gag piuttosto audaci per l'epoca, con Harry che piomba in un atelier dove sta posando una modella nuda! La seconda parte, più convenzionale, vede il nostro eroe in un paese di provincia come assistente di un forzuto da avanspettacolo, che ovviamente sarà costretto a sostituire sulla scena. Le due parti mi sono sembrate piuttosto slegate fra loro, anche se c'è il filo conduttore della ricerca della fidanzata.
La regia di Capra è molto moderna sin dall'inizio e completamente funzionale al racconto e alle gag, con inquadrature ricercate, un montaggio non banale, alternanza di primi piani e campi larghi.

7 aprile 2006

La ragazza del secolo (G. Cukor, 1954)

La ragazza del secolo (It should happen to you!)
di George Cukor – USA 1954
con Judy Holliday, Jack Lemmon
***

Visto in DVD.

Gladys Glover (Holliday), giovane modella giunta a New York "per farsi un nome", decide di spendere tutti i suoi risparmi per affittare un cartellone pubblicitario in bella vista e scriverci appunto il proprio nome e cognome. Pur non avendo nessuna capacità, diventa immediatamente popolare: viene invitata nei talk show e assunta come testimonial pubblicitaria. Una commedia brillante e divertente, all'apparenza leggerina ma – come spesso capita nei film di Cukor – con sottotesti satirici e sociali non banali, in particolare sull'importanza della pubblicità e sul desiderio dell'americano medio di diventare una celebrità. E soprattutto ancora incredibilmente attuale: stupisce pensare infatti che il film risalga al 1954, ben prima del "Grande Fratello" e dei reality show che oggi trasformano in VIP personaggi del tutto insignificanti: quello che allora capitava negli Stati Uniti oggi accade anche da noi e in tutto il mondo. La Holliday mi è sembrata assai brava e in molte scene esilarante. Un giovanissimo Jack Lemmon (al suo primo film) mostra già tutto il proprio talento dando vita a un personaggio fresco e simpatico. Quanto allo stile di Cukor, mi piace moltissimo e l'ho apprezzato soprattutto nei piccoli dettagli di alcune scene mute (come l'inquadratura del piede scalzo di Gladys, o la sequenza in cui lei deve entrare nel palazzo attraverso la porta girevole). La sceneggiatura di Garson Kanin era stata originariamente pensata per un protagonista maschile, che avrebbe dovuto essere Danny Kaye.

6 aprile 2006

Truman Capote (Bennett Miller, 2005)

Truman Capote – A sangue freddo (Capote)
di Bennett Miller – USA 2005
con Philip Seymour Hoffman, Catherine Keener
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Visto al cinema Eliseo.

È praticamente il making of del celebre romanzo-inchiesta "A sangue freddo" scritto nel 1966 da Capote sul massacro di un'intera famiglia in un angolo remoto del Kansas da parte di due rapinatori. Il film segue le ricerche dello scrittore per documentarsi sull'argomento e il suo rapporto di amore/amicizia con uno dei due assassini. Da come ne avevo sentito parlare e ne avevo letto, mi aspettavo francamente di più: mi è sembrato un film freddo e impalpabile, troppo asciutto per riuscire a coinvolgere, decisamente inferiore a “Infamous”, pellicola sullo stesso argomento che uscirà l'anno successivo. Qui la sceneggiatura non approfondisce nessun personaggio, e l'unico che alla fine rimane impresso, Capote appunto, lo deve soprattutto alla recitazione del bravissimo Philip Seymour Hoffman (Oscar meritato per lui, che avevo già apprezzato in "Magnolia" e "La venticinquesima ora"). Ma a parte il protagonista (e la potenza della storia), il film è cinematograficamente è piuttosto povero: la regia e le immagini non mostrano quello che in teoria ci sarebbe nel testo, né la "convergenza" fra i due mondi, quello borghese e quello disagiato, né il rapporto fra Capote e il criminale, descritto in maniera superficiale con una serie interminabile e ripetuta di visite in carcere. Che lo sceneggiatore giochi a tirarsi indietro è evidente poi nella scena della lettura pubblica del libro da parte di Capote, dove ci viene fatto ascoltare il paragrafo introduttivo, una semplice descrizione ambientale, anziché i brani che parlano dei criminali, che poi il pubblico loda come "sconvolgenti".

5 aprile 2006

Steamboy (Katsuhiro Otomo, 2004)

Steamboy (id.)
di Katsuhiro Otomo – Giappone 2004
animazione tradizionale
**

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Nel 1862, alla vigilia della prima Esposizione Universale di Londra, il rampollo di una famiglia di scienziati viene in possesso di una misteriosa sfera metallica che sembra far gola a molti, visto che può generare – attraverso il vapore – un'enorme quantità di energia. Di ritorno alla regia di un lungometraggio animato 16 anni dopo "Akira" (nel frattempo ci sono stati un episodio di "Memories", diverse sceneggiature e persino un film in live action, "World Apartment Horror"), Otomo sembra – almeno all'inizio – voler fare il Miyazaki, scegliendo un'ambientazione europea e steampunk che ricorda molte cose del fondatore dello Studio Ghibli ("Laputa" e "Sherlock Holmes" su tutte). Poi, però, l'aspetto scientifico e tecnologico (che in Miyazaki fa parte dell'ambientazione ma non diventa mai protagonista assoluto) prende il sopravvento, come forse c'era da aspettarsi dall'autore di "Akira", e si assiste a quasi un'ora e mezza di combattimenti fra macchine a vapore nella Londra vittoriana. Il tutto sembra decisamete tirato troppo per le lunghe, anche perché pure l'animazione è buona ma non eccezionale. Tema centrale del film è lo scontro fra lo scienziato idealista (il nonno di Ray, che vorrebbe distruggere le proprie invenzioni piuttosto di vederle usate a scopi bellici) e quello pragmatico (il padre, per il quale "la scienza è potere" e deve produrre un profitto). È un tema classico degli anime giapponesi, che fra l'altro si intreccia con quello – ancora più giapponese – del conflitto generazionale fra padri e figli. Come diceva non ricordo chi (Luca Raffaelli, forse?), sin da Tezuka nei manga e negli anime è evidente la spaccatura della società nipponica: i bambini sono sempre alleati con gli anziani (i nonni) contro gli adulti (i padri). Questo "salto" di una generazione risale forse agli anni successivi alla seconda guerra mondiale, quando gli adulti si sono impegnati nella ricostruzione del paese e dell'economia, pensando però troppo al profitto e al successo. Trascurati o addirittura impauriti dagli adulti (e dalle forti costrizioni sociali che impongono loro), i bambini – fino a quando non crescono, almeno – anziché vedere in loro un punto di riferimento si rivolgono ai nonni, quelli della generazione precedente, con i quali sentono di avere molto di più in comune.

Nota 1: la ragazzina americana ricca e viziata (ovviamente il personaggio più divertente del film, nonché l'unico interessante a parte il trio nonno-padre-figlio) si chiama Scarlett O'Hara! Citazione fin troppo evidente...

Nota 2: avevo iniziato a guardarlo in italiano, ma dopo quindici minuti di film ho dovuto passare al giapponese perché non sopportavo il doppiaggio. In Italia ci vantiamo spesso di avere i migliori doppiatori al mondo, ma ultimamente mi chiedo se questo sia ancora vero. Rispetto a una ventina di anni fa, oggi molti film (e soprattutto i cartoni animati) sono doppiati da schifo. Voci tutte uguali e con la stessa impostazione, che si tratti di personaggi giovani oppure vecchi, allegri oppure cupi, simpatici o antipatici. La cosa si nota soprattutto nei film asiatici (giapponesi in particolare), dove gran parte della personalità del personaggio viene veicolata proprio dall'intonazione della voce.

4 aprile 2006

Unknown pleasures (Jia Zhangke, 2002)

Unknown Pleasures (Ren xiao yao)
di Jia Zhangke – Cina 2002
con Zhao Wei Wei, Wu Qiong, Zhao Tao
**1/2

Visto in TV, su Fuori Orario, in originale con sottotitoli.

Due ragazzi vivono in una città di provincia nel nord della Cina: uno si innamora di una ballerina, l'altro medita di lasciare il lavoro per arruolarsi nell'esercito. Di Jia avevo già visto "Xiao Wu" (il suo film d'esordio, che con il successivo "Platform" e questo forma un'ideale trilogia) e "The World" (finora quello che mi è piaciuto di più). Mi sembra uno dei più interessanti di quel gruppo di registi cinesi dediti al "neorealismo sociale", come Zhang Yuan ("Diciassette anni") e Wang Xiaoshuai ("Le biciclette di Pechino"), che cercano di raccontare la trasformazione e le contraddizioni della Cina moderna, il passaggio dalla campagna alla città, l'industrializzazione, i problemi e le aspirazioni dei giovani alle prese con l'amore o il lavoro, la nuova ricchezza e/o la criminalità, l'apertura al mondo occidentale (qui illustrata dall'annuncio dell'assegnazione delle olimpiadi 2008 a Pechino, dai commenti sul WTO e da un'inaspettata citazione da "Pulp Fiction"). Nulla a che vedere con il manierismo di Zhang Yimou, che infatti quando ha cercato di fare le stesse cose si è mantenuto su un registro caricaturale ("Keep cool", "La locanda della felicità") oppure "iraniano" ("Non uno di meno"). Il film di Jia, invece, è quasi "senza stile", con un montaggio invisibile e attori raramente ripresi in primo piano. Film del genere hanno poca trama, perché ciò che conta è l'ambientazione. Sono quasi documentari. Per gran parte della visione, a dire il vero, la mia mente vagava pensando ad altre cose: di solito questo indica che il film non mi sta piacendo o mi sta annoiando. Però alla fine mi è rimasta la sensazione di essere stato per due ore lì, insieme ai personaggi, e di aver conosciuto la Cina "mainland" molto più che guardando i film di Zhang Yimou o di Chen Kaige.

2 aprile 2006

I guardiani della notte (T. Bekmambetov, 2004)

I guardiani della notte (Nochnoi dozor)
di Timur Bekmambetov – Russia 2004
con Konstantin Khabensky, Vladimir Menshov
**1/2

Visto in divx, da Monica.

Vampiri, stregoni e "mutantropi", divisi fra seguaci della Luce e seguaci delle Tenebre, vivono da secoli segretamente in mezzo agli uomini, in attesa dello scontro finale. Anton, appartenente ai guardiani della notte (una sorta di "poliziotti" della Luce che vigilano affinché i nemici non rompano la tregua), scopre di avere un figlio e che il bambino – conteso fra le due fazioni – sarà destinato a sconvolgere l'attuale equilibrio. Tutto già visto? Il solito blockbuster sui "vampiri urbani", un tema che negli ultimi tempi sembra essere particolarmente in voga? Non esattamente, perché si tratta di una pellicola russa. E si nota in molte cose. Come diceva Vincent Vega, sono i piccoli particolari a fare la differenza. I volti degli attori russi, innanzitutto, ambigui e inquietanti, tutt'altro che "belli". L'iconografia e le caratteristiche dei vampiri, così lontani dal look gotico e dark che sembra ormai imprescindibile in occidente. La mitologia bizantina che li circonda (Mosca che sprofonda in un vortice di distruzione soltanto perché qualcuno ha maledetto una donna). Personaggi meno pretenziosi che in "Underworld", più realistici e umanizzati. Buoni e cattivi che in fondo non sono poi molto diversi tra loro, al punto da poter essere amici (il vicino di casa del protagonista fa parte della setta rivale, eppure i due si frequentano e si scambiano favori). Abituato a film russi "d'autore" (Tarkovskij, Michalkov, Sokurov...), trovarmi di fronte a una pellicola "commerciale" mi ha fatto uno strano effetto. Il livello produttivo è decisamente buono, e gli effetti speciali sono piuttosto originali. L'ambientazione horror ha sicuramente favorito il successo (enorme in patria) anche all'estero. Ho anche notato con divertimento alcuni tocchi "alla JoJo" qua e là: dal combattimento contro il vampiro invisibile che può essere visto soltanto negli specchi, al megacattivo che si prepara per lo scontro finale allenandosi con un videogioco. La storia è tratta da una serie di romanzi di Sergei Lukyanenko: questo è il primo di una trilogia. A questo punto, attendo di vedere il seguito (appena uscito in Russia).

Sfida infernale (John Ford, 1946)

Sfida infernale (My Darling Clementine)
di John Ford – USA 1946
con Henry Fonda, Victor Mature, Linda Darnell
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Visto in DVD, con Martin.

Di passaggio per l'Arizona, l'ex sceriffo – e ora mandriano – Wyatt Earp (Henry Fonda) accetta di indossare nuovamente la stella per scoprire chi ha rubato il suo bestiame e, soprattutto, ucciso il suo fratello più giovane. Stringerà amicizia con Doc Holliday (Victor Mature), ex medico riciclatosi in pistolero, alcolizzato e malato di tubercolosi, che gli darà man forte contro i fratelli Clanton, con i quali si sfiderà all'O.K. Corral. Uno dei più celebri episodi della storia del west, raccontato in chiave romantica e trasfigurata, in uno dei più amati e rappresentativi film di John Ford. Di certo c'è tutto quello che ci si aspetta: sceriffi e saloon, ballerine e maestrine, pistoleri e ladri di bestiame, misfatti e vendette. E tecnicamente Ford è davvero grandissimo (le sue inquadrature sono sempre eccellenti, l'uso degli spazi e la costruzione delle scene anche, per non parlare dei paesaggi e dell'atmosfera). E allora allora perché non mi ha entusiasmato? Mi è piaciuto, sì, ma non quanto altri classici western di quell'epoca (da "Mezzogiorno di fuoco" a "Un dollaro d'onore"). Insomma, perché Ford non riesce a entrare nel novero dei miei registi preferiti? Forse quello che lo frena ai miei occhi è l'ingenuità "hollywoodiana" dei suoi film, i personaggi un po' troppo bonari, poco ambigui anche quando cercano di esserlo (Victor Mature non è mai convincente come Doc Hollyday. Perfetto, invece, Henry Fonda). Forse non riesco a sentirne l'epicità, la caratteristica per me più importante in un western, che pure molti dicono che ci sia. Non ci trovo tragedia, né malinconia, né potenza, né furore. Sicuramente non ci trovo tensione, semmai fra i pregi dei film c'è la rappresentazione della tranquillità morale degli "uomini onesti che lottano per la pace e il progresso". Restano l'ottima fotografia in b/n, i bei paesaggi della Monument Valley, quei cieli stupendi pieni di nuvole luminose anche di notte, le inquadrature dello sceriffo seduto sotto il portico ai bordi della strada, i piccoli momenti umoristici che precedono la tempesta ("Sei mai stato innamorato, Mac?" "No, ho fatto il barista tutta la vita"). E il rendersi conto che il film, più che sulla sfida citata nel titolo italiano (che occupa soltanto gli ultimi dieci minuti), è in realtà incentrato sull'amicizia fra Earp e Holliday, sul rapporto fra gli uomini e le loro donne, sui valori della famiglia: forse il titolo originale (con l'altrettanto celebre canzone sui titoli di testa e di coda) era più sincero. Questo fa riferimento a Clementine Carter (Cathy Downs), la fidanzata di Holliday di cui anche Earp si invaghisce, anche se il ruolo femminile più memorabile è quello di Chihuahua (Linda Darnell), la cantante e prostituta messicana innamorata di Doc. Il produttore Darryl F. Zanuck fece tagliare 30 minuti dal girato di Ford, che sono andati perduti. Naturalmente la sparatoria contro i Clanton e i personaggi di Wyatt Earp e Doc Holliday saranno al centro di numerose altre pellicole, da "Sfida all'O.K. Corral" di John Sturges (1957) ai più recenti "Tombstone" (1993) e "Wyatt Earp" (1994).

Indio Black, sai che ti dico: sei un gran figlio di... (G. Parolini, 1971)

Indio Black, sai che ti dico: sei un gran figlio di...
di Gianfranco Parolini – Italia 1971
con Yul Brynner, Dean Reed
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Visto in DVD, con Martin.

È l'unico spaghetti western interpretato da Yul Brynner, in un periodo felice in cui i film italiani (anche e soprattutto quelli di serie B) potevano facilmente permettersi di scritturare attori internazionali di un certo calibro. Il regista, che nei titoli si firma Frank Kramer, è quello dei due "Sabata" con Lee Van Cleef, anzi in America il film è uscito proprio con il titolo apocrifo "Adios Sabata", come se fosse il terzo di una trilogia. Estremamente leggero, divertente e movimentato, è ambientato in Messico (dunque, a rigore sarebbe uno "Zapata western"), durante la rivoluzione contro l'occupazione austriaca (che in realtà era francese!). Brynner, vestito immancabilmente di nero, è un mercenario alleato con i messicani per rubare l'oro custodito da un colonnello austriaco. Con lui c'è Ballantine (Dean Reed), un pittore-truffatore, nonché un pugno di rivoluzionari ben interpretati dagli soliti ottimi caratteristi italo-spagnoli. Fumettoso come gran parte degli spaghetti western dell'epoca, presenta costumi e armi bizzarre, una regia creativa, belle scene d'azione. Piacevoli anche le musiche di Bruno Nicolai, ovviamente ispirate a quelle di Morricone.